5° incontro

- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 1959-1960)

Opera molto buona del Creatore, la legge naturale fornisce i solidi fondamenti sui quali l’uomo può costruire l’edificio delle regole morali che guideranno le sue scelte. Essa pone anche il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità degli uomini. Procura infine il fondamento necessario alla legge civile, la quale ad essa si riallaccia sia con la riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale, sia con aggiunte di natura positiva e giuridica.

I precetti della legge naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza ed immediatezza. Nell’attuale situazione, la grazia e la Rivelazione sono necessarie all’uomo peccatore perché le verità religiose e morali possano essere conosciute “da tutti e senza difficoltà, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore” (PIO XII, Lett. enc. Humani generis). La legge naturale offre alla

Legge rivelata e alla grazia un fondamento preparato da Dio e in piena armonia con l’opera dello Spirito.

- Da PAPA FRANCESCO, Catechesi sui Comandamenti (5, dell’8 agosto 2018)

 

L’IDOLATRIA

Es 32,7-8

Continuiamo oggi a meditare il Decalogo, approfondendo il tema dell’idolatria, ne abbiamo parlato la settimana scorsa. Ora riprendiamo il tema perché è molto importante conoscerlo. E prendiamo spunto dall’idolo per eccellenza, il vitello d’oro, di cui parla il Libro dell’Esodo (32,1-8) – ne abbiamo appena ascoltato un brano. Questo episodio ha un preciso contesto: il deserto, dove il popolo attende Mosè, che è salito sul monte per ricevere le istruzioni da Dio.

Che cos’è il deserto? È un luogo dove regnano la precarietà e l’insicurezza - nel deserto non c’è nulla - dove mancano acqua, manca il cibo e manca il riparo. Il deserto è un’immagine della vita umana, la cui condizione è incerta e non possiede garanzie inviolabili. Questa insicurezza genera nell’uomo ansie primarie, che Gesù menziona nel Vangelo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?» (Mt 6,31). Sono le ansie primarie. E il deserto provoca queste ansie.

E in quel deserto accade qualcosa che innesca l’idolatria. «Mosè tardava a scendere dal monte» (Es 32,1). È rimasto lì 40 giorni e la gente si è spazientita. Manca il punto di riferimento che era Mosè: il leader, il capo, la guida rassicurante, e ciò diventa insostenibile. Allora il popolo chiede un dio visibile – questo è il tranello nel quale cade il popolo - per potersi identificare e orientare. E dicono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa!», “Facci un capo, facci un leader”. La natura umana, per sfuggire alla precarietà – la precarietà è il deserto - cerca una religione “fai-da-te”: se Dio non si fa vedere, ci facciamo un dio su misura. «Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani» (Enc. Lumen fidei, 13).

Aronne non sa opporsi alla richiesta della gente e crea un vitello d’oro. Il vitello aveva un senso duplice nel vicino oriente antico: da una parte rappresentava fecondità e abbondanza, e dall’altra energia e forza. Ma anzitutto è d’oro, perciò è simbolo di ricchezza, successo, potere e denaro. Questi sono i grandi idoli: successo, potere e denaro. Sono le tentazioni di sempre! Ecco che cos’è il vitello d’oro: il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della libertà e invece schiavizzano, perché l’idolo sempre schiavizza. C’è il fascino e tu vai. Quel fascino del serpente, che guarda l’uccellino e l’uccellino rimane senza potersi muovere e il serpente lo prende. Aronne non ha saputo opporsi. 

Ma tutto nasce dall’incapacità di confidare soprattutto in Dio, di riporre in Lui le nostre sicurezze, di lasciare che sia Lui a dare vera profondità ai desideri del nostro cuore. Questo permette di sostenere anche la debolezza, l’incertezza e la precarietà. Il riferimento a Dio ci fa forti nella debolezza, nell’incertezza e anche nella precarietà. Senza primato di Dio si cade facilmente nell’idolatria e ci si accontenta di misere rassicurazioni. Ma questa è una tentazione che noi leggiamo sempre nella Bibbia. E pensate bene questo: liberare il popolo dall’Egitto a Dio non è costato tanto lavoro; lo ha fatto con segni di potenza, di amore. Ma il grande lavoro di Dio è stato togliere l’Egitto dal cuore del popolo, cioè togliere l’idolatria dal cuore del popolo. E ancora Dio continua a lavorare per toglierla dai nostri cuori. Questo è il grande lavoro di Dio: togliere “quell’Egitto” che noi portiamo dentro, che è il fascino dell’idolatria.

Quando si accoglie il Dio di Gesù Cristo, che da ricco si è fatto povero per noi (cfr 2Cor 8,9), si scopre allora che riconoscere la propria debolezza non è la disgrazia della vita umana, ma è la condizione per aprirsi a colui che è veramente forte. Allora, per la porta della debolezza entra la salvezza di Dio (cfr 2Cor 12,10); è in forza della propria insufficienza che l’uomo si apre alla paternità di Dio. La libertà dell’uomo nasce dal lasciare che il vero Dio sia l’unico Signore. E questo permette di accettare la propria fragilità e rifiutare gli idoli del nostro cuore.

Noi cristiani volgiamo lo sguardo a Cristo crocifisso (cfr Gv 19,37), che è debole, disprezzato e spogliato di ogni possesso. Ma in Lui si rivela il volto del Dio vero, la gloria dell’amore e non quella dell’inganno luccicante. Isaia dice: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53,5). Siamo stati guariti proprio dalla debolezza di un uomo che era Dio, dalle sue piaghe. E dalle nostre debolezze possiamo aprirci alla salvezza di Dio. La nostra guarigione viene da Colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento, che ha preso fino in fondo la nostra precarietà per riempirla di amore e di forza. Lui viene a rivelarci la paternità di Dio; in Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre e sorgente di una nuova forza dall’alto.

 

- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Terza predica di Quaresima, 29 marzo 2019) 

 

LA IDOLATRIA, ANTITESI DEL DIO VIVENTE

(prima parte)

Ogni mattina, al risveglio, noi facciamo un’esperienza singolare, alla quale non facciamo quasi mai caso. Durante la notte, le cose intorno a noi esistevano, erano come le avevamo lasciate la sera prima: il letto, la finestra, la stanza. Forse fuori già splende il sole, ma non lo vediamo perché abbiamo gli occhi chiusi e le tendine abbassate. Solo adesso, al risveglio, le cose cominciano o tornano ad esistere per me, perché ne prendo coscienza, mi accorgo di esse. Prima era come se esse non esistessero, come se io stesso non esistessi.

Avviene la stessa cosa con Dio. Lui c’è sempre; “in lui ci muoviamo, respiriamo e siamo”, diceva Paolo agli ateniesi (Atti 17,28); ma di solito ciò avviene come nel sonno, senza che ce ne rendiamo conto. Occorre anche per lo spirito un risveglio, un soprassalto di coscienza. Ecco perché la Scrittura ci esorta così spesso a svegliarci dal sonno: “Svegliati tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14), “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno!” (Rom 13,11). 

L’idolatria antica e nuova

Il Dio “vivente” della Bibbia è così definito per distinguerlo dagli idoli che sono cose morte. È la battaglia che accomuna tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Basta aprire quasi a caso una pagina dei profeti o dei salmi per trovarvi i segni di questa epica lotta in difesa del Dio unico d’Israele. L’idolatria è l’esatta antitesi del Dio vivente. Degli idoli, un salmo dice: “Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni” (Sal 114,3-7).

Dal contrasto con gli idoli, il Dio vivente appare come un Dio che “opera ciò che vuole”, che parla, che vede, che ode, un Dio “che respira”! Il respiro di Dio ha anche un nome nella Scrittura: si chiama la “Ruah Jahwe”, lo Spirito di Dio.

La battaglia contro l’idolatria non è purtroppo terminata con la fine del paganesimo storico; è sempre in atto. Gli idoli hanno cambiato nome, ma sono più che mai presenti. Anche dentro ognuno di noi, vedremo, ne esiste uno che è il più temibile di tutti. Vale la pena perciò soffermarci per una volta su questo problema, come problema attuale, e non solo del passato.

Chi ha fatto dell’idolatria l’analisi più lucida e più profonda è l’apostolo Paolo. Da lui ci lasciamo guidare alla scoperta del “vitello d’oro” che si annida dentro ognuno di noi. All’inizio della lettera ai Romani leggiamo queste parole:

In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rom 1,18-21).

Nella mente di quelli che hanno studiato teologia, queste parole sono legate quasi esclusivamente alla tesi della conoscibilità naturale dell’esistenza di Dio a partire dalle creature. Perciò, una volta risolto questo problema, o dopo che esso ha cessato di essere attuale come in passato, avviene che molto raramente queste parole vengano ricordate e valorizzate. Ma quello della conoscibilità naturale di Dio è, nel contesto, un problema del tutto marginale. Le parole dell’Apostolo hanno ben altro da dirci; esse contengono uno di quei “tuoni di Dio” capaci di schiantare anche i cedri del Libano.

L’Apostolo è intento a dimostrare qual è la situazione dell’umanità prima di Cristo e fuori di lui; in altre parole, da dove parte il processo della redenzione. Esso non parte da zero, dalla natura, ma da sottozero, dal peccato. Tutti hanno peccato, nessuno escluso. L’Apostolo divide il mondo in due categorie: Greci e Giudei, cioè pagani e credenti, e comincia la sua requisitoria proprio dal peccato dei pagani. Individua il peccato fondamentale del mondo pagano nell’empietà e nella ingiustizia. Dice che esso è un attentato alla verità; non a questa o quella verità, ma alla verità originaria di tutte le cose.

Il peccato fondamentale, l’oggetto primario dell’ira divina, è individuato nell’asebeia, cioè nell’empietà. In che consiste, esattamente, tale empietà, l’Apostolo lo spiega subito, dicendo che essa consiste nel rifiuto di “glorificare” e di “ringraziare” Dio. In altre parole, nel rifiuto di riconoscere Dio come Dio, nel non tributare a lui la considerazione che gli è dovuta. Consiste, potremmo dire, nell’“ignorare” Dio, dove, però, ignorare non significa tanto “non sapere che esiste”, quanto “fare come se non esistesse”.

Nell’Antico Testamento sentiamo Mosè che grida al popolo: “Riconoscete che Dio è Dio!” (cfr Dt 7,9) e un salmista riprende tale grido, dicendo: “Riconoscete che il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi!” (Sal 100,3). Ridotto al suo nucleo germinativo, il peccato è negare questo “riconoscimento”; è il tentativo, da parte della creatura, di annullare l’infinita differenza qualitativa che c’è tra la creatura e il Creatore, rifiutando di dipendere da lui. Tale rifiuto ha preso corpo, concretamente, nell’idolatria, per la quale si adora la creatura al posto del Creatore (cfr Rom 1,25). I pagani, prosegue l’Apostolo, “hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Rom 1,22-23).

L’Apostolo non vuole dire che tutti i pagani, indistintamente, siano vissuti soggettivamente in questo tipo di peccato (più avanti parlerà di pagani che si rendono accetti a Dio seguendo la legge di Dio scritta nei loro cuori, cfr Rom 2,14s); vuole solo dire qual è la situazione oggettiva dell’uomo davanti a Dio dopo il peccato. L’uomo, creato “retto” (nel senso fisico di eretto e in quello morale di giusto), con il peccato è diventato “curvo”, cioè ripiegato su se stesso, e “perverso”, cioè orientato verso se stesso, anziché verso Dio.