9° incontro 

- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 1967-1969)

La Legge evangelica “dà compimento” (cfr Mt 5,17-19) alla Legge antica, la purifica, la supera e la porta alla perfezione. Nelle beatitudini essa compie le promesse divine, elevandole ed ordinandole al regno dei cieli. Si rivolge a coloro che sono disposti ad accogliere con fede questa speranza nuova: i poveri, gli umili, gli afflitti, i puri di cuore, i perseguitati a causa di Cristo, tracciando in tal modo le sorprendenti vie del Regno.

La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge. Il discorso del Signore sulla montagna, lungi dall’abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro (cfr Mt 15,18-19), dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità e, con queste, le altre virtù. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l’imitazione della perfezione del Padre celeste (cfr Mt 5,48), il perdono dei nemici e la preghiera per i persecutori, sull’esempio della magnanimità divina (cfr Mt 5,44).

La Legge nuova pratica gli atti della religione: l’elemosina, la preghiera e il digiuno, ordinandoli al “Padre che vede nel segreto”, in opposizione al desiderio di “essere visti dagli uomini” (cfr Mt 6,1-6.16-18). La sua preghiera è il “Padre nostro” (cfr Mt 6,9-13).

 

- Da PAPA FRANCESCO, Catechesi sui Comandamenti (8, del 12 settembre 2018)

 

IL GIORNO DEL RIPOSO, PROFEZIA DI LIBERAZIONE

Dt 5,12-15

Nella catechesi di oggi torniamo ancora sul terzo comandamento, quello sul giorno del risposo. Il Decalogo, promulgato nel libro dell’Esodo, viene ripetuto nel libro del Deuteronomio in modo pressoché identico, ad eccezione di questa Terza Parola, dove compare una preziosa differenza: mentre nell’Esodo il motivo del riposo è la benedizione della creazione, nel Deuteronomio, invece, esso commemora la fine della schiavitù. In questo giorno lo schiavo si deve riposare come il padrone, per celebrare la memoria della Pasqua di liberazione.

Gli schiavi, infatti, per definizione non possono riposare. Ma esistono tanti tipi di schiavitù, sia esteriore che interiore. Ci sono le costrizioni esterne come le oppressioni, le vite sequestrate dalla violenza e da altri tipi di ingiustizia. Esistono poi le prigionie interiori, che sono, ad esempio, i blocchi psicologici, i complessi, i limiti caratteriali e altro. Esiste riposo in queste condizioni? Un uomo recluso o oppresso può restare comunque libero? E una persona tormentata da difficoltà interiori può essere libera?

In effetti, ci sono persone che, persino in carcere, vivono una grande libertà d’animo. Pensiamo, ad esempio, a san Massimiliano Kolbe, o al Cardinale Van Thuan, che trasformarono delle oscure oppressioni in luoghi di luce. Come pure ci sono persone segnate da grandi fragilità interiori che però conoscono il riposo della misericordia e lo sanno trasmettere. La misericordia di Dio ci libera. E quando tu ti incontri con la misericordia di Dio, hai una libertà interiore grande e sei anche capace di trasmetterla. Per questo è tanto importante aprirsi alla misericordia di Dio per non essere schiavi di noi stessi.

Che cos’è dunque la vera libertà? Consiste forse nella libertà di scelta? Certamente questa è una parte della libertà, e ci impegniamo perché sia assicurata ad ogni uomo e donna (cfr CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. Gaudium et spes, 73). Ma sappiamo bene che poter fare ciò che si desidera non basta per essere veramente liberi, e nemmeno felici. La vera libertà è molto di più.

Infatti, c’è una schiavitù che incatena più di una prigione, più di una crisi di panico, più di una imposizione di qualsiasi genere: è la schiavitù del proprio ego. [1] Quella gente che tutta la giornata si specchia per vedere l’ego. E il proprio ego ha una statura più alta del proprio corpo. Sono schiavi dell’ego. L’ego può diventare un aguzzino che tortura l’uomo ovunque sia e gli procura la più profonda oppressione, quella che si chiama “peccato”, che non è banale violazione di un codice, ma fallimento dell’esistenza e condizione di schiavi (cfr Gv 8,34). [2] Il peccato è, alla fine, dire e fare ego. “Io voglio fare questo e non mi importa se c’è un limite, se c’è un comandamento, neppure mi importa se c’è l’amore”. 

L’ego, per esempio, pensiamo nelle passioni umane: il goloso, il lussurioso, l’avaro, l’iracondo, l’invidioso, l’accidioso, il superbo – e così via – sono schiavi dei loro vizi, che li tiranneggiano e li tormentano. Non c’è tregua per il goloso, perché la gola è l’ipocrisia dello stomaco, che è pieno ma ci fa credere che è vuoto. Lo stomaco ipocrita ci fa golosi. Siamo schiavi di uno stomaco ipocrita. Non c’è tregua per il goloso e il lussurioso che devono vivere di piacere; l’ansia del possesso distrugge l’avaro, sempre ammucchiano soldi, facendo male agli altri; il fuoco dell’ira e il tarlo dell’invidia rovinano le relazioni. Gli scrittori dicono che l’invidia fa venire giallo il corpo e l’anima, come quando una persona ha l’epatite: diventa gialla. Gli invidiosi hanno gialla l’anima, perché mai possono avere la freschezza della salute dell’anima. L’invidia distrugge. L’accidia che scansa ogni fatica rende incapaci di vivere; l’egocentrismo – quell’ego di cui parlavo - superbo scava un fosso fra sé e gli altri.

Cari fratelli e sorelle, chi è dunque il vero schiavo? Chi è colui che non conosce riposo? Chi non è capace di amare! E tutti questi vizi, questi peccati, questo egoismo ci allontanano dall’amore e ci fanno incapaci di amare. Siamo schiavi di noi stessi e non possiamo amare, perché l’amore è sempre verso gli altri.

Il terzo comandamento, che invita a celebrare nel riposo la liberazione, per noi cristiani è profezia del Signore Gesù, che spezza la schiavitù interiore del peccato per rendere l’uomo capace di amare. L’amore vero è la vera libertà: distacca dal possesso, ricostruisce le relazioni, sa accogliere e valorizzare il prossimo, trasforma in dono gioioso ogni fatica e rende capaci di comunione. L’amore rende liberi anche in carcere, anche se deboli e limitati. 

Questa è la libertà che riceviamo dal nostro Redentore, il Signore nostro Gesù Cristo.

 

  • Cfr CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 1733: «La scelta della disobbedienza e del male è un abuso della libertà e conduce alla schiavitù del peccato».
  • Cfr CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 1739: «La libertà̀ dell’uomo è finita e fallibile. Di fatto, l’uomo ha sbagliato. Liberamente ha peccato. Rifiutando il disegno d’amore di Dio, si è ingannato da sé; è divenuto schiavo del peccato. Questa prima alienazione ne ha generate molte altre. La storia dell’umanità, a partire dalle origini, sta a testimoniare le sventure e le oppressioni nate dal cuore dell’uomo, in conseguenza di un cattivo uso della libertà».

 

- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Prima predica di Avvento, 7 dicembre 2018) 

 

DIO C'È!

Nella Chiesa siamo così incalzati da compiti da assolvere, problemi da affrontare, sfide a cui rispondere, che rischiamo di perdere di vista, o lasciare come sullo sfondo, l’ “unico necessario” del Vangelo, e cioè il nostro rapporto personale con Dio. Oltre tutto, sappiamo per esperienza che un rapporto personale autentico con Dio è la prima condizione per affrontare tutte le situazioni e i problemi che si presentano, senza perdere la pace e la pazienza.

In queste prediche di Avvento cercheremo di fare quello che SANTA ANGELA DA FOLIGNO

raccomandava ai suoi figli spirituali: “raccoglierci in unità e inabissare la nostra anima nell’infinito che è Dio”. Fare un bagno mattutino di fede, prima di iniziare la giornata di lavoro.

Il tema di queste prediche di Avvento (e, se Dio lo vorrà, anche della Quaresima) sarà il versetto del Salmo: “L’anima mia ha sete del Dio vivente” (Sal 42,2). Gli uomini del nostro tempo si appassionano a cercare segnali dell’esistenza di esseri viventi e intelligenti su altri pianeti. È una ricerca legittima e comprensibile anche se tanto incerta. Pochi però cercano e studiano segnali dell’Essere vivente che ha creato l’universo, che è entrato in esso, nella sua storia, e vive in esso. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17,28) e non ce ne accorgiamo. Abbiamo il Vivente reale in mezzo a noi e lo trascuriamo per cercare esseri viventi ipotetici che, nel migliore dei casi, potrebbero fare ben poco per noi, certo non salvarci dalla morte.

Quante volte siamo costretti a dire a Dio, con SANT’AGOSTINO: “Tu eri con me, ma io non ero con te”. Al contrario di noi, infatti, il Dio vivente ci cerca, non fa altro dalla creazione del mondo. Continua a dire: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9). Noi ci proponiamo di captare i segnali di questo Dio vivente, di rispondere al suo appello, di “bussare alla sua porta”, per entrare in un contatto nuovo, vivo, con lui.

Ci appoggiamo sulla parola di Gesù: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). Quando si leggono queste parole, si pensa immediatamente che Gesù prometta di darci tutte le cose che gli chiediamo, e rimaniamo perplessi perché vediamo che questo raramente si realizza. Egli però intendeva dire soprattutto una cosa: “Cercatemi e mi troverete, bussate e vi aprirò”. Promette di dare se stesso, al di là delle cose spicciole che gli chiediamo, e questa promessa è sempre infallibilmente mantenuta. Chi lo cerca, lo trova; a chi bussa, lui apre e una volta trovato lui, tutto il resto passa in seconda linea.

L’anima che ha sete del Dio vivente lo troverà infallibilmente e con lui e in lui troverà tutto, come ci ricordano le parole di SANTA TERESA D’AVILA: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi; tutto passa, Dio non cambia; la pazienza ottiene tutto; chi possiede Dio non manca di nulla. Solo Dio basta”. Con questi sentimenti iniziamo il nostro cammino di ricerca del volto di Dio vivente.

 

Tornare alle cose!

La Bibbia è punteggiata di testi che parlano di Dio come del “vivente”. “Egli è il Dio vivente”, dice Geremia (Ger 10,10); “Io sono il vivente”, dice Dio stesso in Ezechiele (Ez 33,11). In uno dei salmi più belli del salterio, scritto durante l’esilio, l’orante esclama: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal 42,2). E ancora: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente” (Sal 84,3). Pietro, a Cesarea di Filippo, proclama Gesú “Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).

Si tratta evidentemente di una metafora tratta dall’esperienza umana. Israele si è rassegnato a usarla per distinguere il suo Dio dagli idoli delle genti che sono divinità “morte”. In contrasto con essi, il Dio della Bibbia è “un Dio che respira” e il suo respiro o soffio (ruah) è lo Spirito Santo. Dopo il lungo predominio dell’idealismo e il trionfo dell’ “idea”, in tempi a noi più vicini, anche il pensiero secolare ha avvertito il bisogno di un ritorno alla “realtà” e l’ha espresso nel grido programmatico: “Tornare alle cose!”. Cioè: non fermarsi alle formulazioni date della realtà, alle teorie costruitevi sopra, a ciò che comunemente si pensa intorno ad essa, ma puntare direttamente alla realtà stessa che sta alla base di tutto; rimuovere i vari strati di terra riportata e scoprire la roccia sottostante.

Dobbiamo applicare questo programma anche all’ambito della fede. Della fede, infatti, SAN

TOMMASO D’AQUINO ha scritto che “non termina alle enunciazioni, ma alle cose”. Quando si tratta della

“cosa” suprema nell’ambito della fede, cioè di Dio, “tornare alle cose”, significa tornare al Dio vivente; sfondare, per così dire, il terribile muro dell’idea che ci siamo fatti di lui e correre, come a braccia aperte, incontro a Dio in persona. Scoprire che Dio non è un’astrazione, ma una realtà; che tra le nostre idee di Dio e il Dio vivo c’è la stessa differenza che tra un cielo dipinto su un foglio di carta e il cielo vero. …

 

La pagina della Bibbia che narra del roveto ardente (Es 3,1ss.) è essa stessa un roveto ardente. Brucia, ma non si consuma. A distanza di millenni non ha perso nulla del suo potere di veicolare il senso del divino. Essa mostra, meglio di ogni discorso, cosa succede quando si incontra davvero il Dio vivente. “Mosè pensò: ‘Voglio avvicinarmi…’”. Ancora pensa e vuole. È padrone di sé; è lui che conduce (o crede di condurre) il gioco. Ma ecco che il divino irrompe con il suo essere e impone la sua legge. “Mosè, Mosè! Non avvicinarti. Io sono il Dio di tuo padre”. Tutto è improvvisamente cambiato. Mosè diventa di colpo docile, remissivo. “Eccomi!”, risponde e si vela il viso, come i Serafini si coprivano gli occhi con le ali (cfr Is 6,2). Mosè entra nel mistero.

In questa atmosfera Dio rivela il suo nome: “Io sono colui che sono”. Trapiantata sul terreno culturale ellenistico, già con i Settanta, questa parola era stata interpretata come una definizione di ciò che Dio è, l’Essere assoluto, come un’affermazione della sua essenza più profonda. Ma una tale interpretazione, dicono oggi gli esegeti, è “del tutto estranea al modo di pensare dell’Antico Testamento”. La frase significa piuttosto: “Io sono colui che ci sono; o più semplicemente ancora: “Io ci sono (o Io ci sarò) per voi!”. Si tratta di un’affermazione concreta, non astratta; si riferisce più all’esistenza di Dio che non alla sua essenza, più al suo “esserci”, che non a “che cosa è”. Non siamo lontani dall’ “Io vivo”, “Io sono il vivente”, che Dio pronuncia in altre parti della Bibbia.

Quel giorno dunque Mosè scoprì una cosa semplicissima, ma capace di mettere in moto e sostenere tutto il processo di liberazione che seguirà. Scoprì che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe esiste, c’è, è una realtà presente e operante nella storia, uno su cui si può contare. Questo era, del resto, quello che Mosè aveva bisogno di sapere in quel momento, non un’astratta definizione di Dio.

C’è qualcosa che accomuna l’esperienza del filosofo davanti alla radice del castagno e quella di Mosè davanti al roveto ardente. Entrambi scoprono il mistero dell’essere: il primo, l’essere delle cose, il secondo l’Essere di Dio. Ma mentre scoprire che Dio esiste è fonte di coraggio e di gioia, scoprire solo che le cose esistono non produce, a detta di quello stesso filosofo, che “nausea”. 

 

Dio, sentimento di una presenza

Cosa significa e come si definisce il Dio vivente? Per un momento ho coltivato il proposito di rispondere a questa domanda, tracciando un profilo del Dio vivente, a partire dalla Bibbia, ma poi ho visto che sarebbe stata una grande stoltezza. Voler descrivere il Dio vivente, tracciarne un profilo, sia pure fondandosi sulla Bibbia, è ricadere nel tentativo di ridurre il Dio vivente a idea del Dio vivente.

Quello che possiamo fare, anche nei confronti del Dio vivente, è oltrepassare “i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla sua superficie”, rompere i piccoli gusci delle nostre idee di Dio, o i “vasetti di alabastro” in cui lo teniamo racchiuso, in modo che il suo profumo si espanda e “riempia la casa”. Ci è maestro in questo SANT’AGOSTINO. Il santo ci ha lasciato una specie di metodo per elevarci con il cuore e la mente al Dio vivo e vero. Esso consiste nel ripetere a noi stessi, dopo ogni riflessione su Dio: “Ma Dio non è questo, ma Dio non è questo!”.

Pensa alla terra, pensa al cielo, pensa agli angeli o a qualsiasi cosa o persona; pensa, infine, a quello che tu stesso pensi di Dio, e ogni volta ripeti: “Sì, ma Dio non è questo, Dio non è questo!”.

“Cerca sopra di noi”, rispondono, una ad una, tutte le creature interrogate. Dobbiamo credere in un Dio che è al di là del Dio in cui crediamo!

Il Dio vivente, in quanto vivente, lo si può intuire vagamente, averne una specie di sentore o pre-sentimento. Si può suscitarne il desiderio, la nostalgia. Di più no. Non si può racchiudere la vita in un’idea. Per questo si può avere di lui più facilmente il sentimento, o il sentore, che non l’idea, poiché l’idea circoscrive la persona, mentre il sentimento ne rivela la presenza, lasciandola nella sua interezza e indeterminazione. SAN GREGORIO NISSENO parla della più alta forma di conoscenza di Dio come di un “sentimento di presenza”.

Il divino è una categoria assolutamente diversa da ogni altra, che non può essere definita, ma solo accennata; se ne può parlare solo per analogie e per contrapposti. Un’immagine che nella Bibbia ci parla così di Dio è quella della roccia. Pochi titoli biblici sono capaci di creare in noi un sentimento così vivo di Dio - soprattutto di ciò che Dio è per noi - quanto questo del Dio-roccia. Cerchiamo anche noi di succhiare, come dice la Scrittura, “miele dalla roccia” (cfr Dt 32,13).

Più che un semplice titolo, roccia appare, nella Bibbia, come una specie di nome personale di Dio, tanto da essere scritto, a volte, con la lettera maiuscola. “Egli è la Roccia, perfetta è l’opera sua” (Dt 32, 4); “Il Signore è una roccia eterna” (Is 26,4). Ma perché questa immagine non ci incuta spavento e soggezione per la durezza e l’impenetrabilità che evoca, ecco che la Bibbia aggiunge subito un’altra verità: egli è la “nostra” roccia, la “mia” roccia. Cioè una roccia per noi, non contro di noi. “Il Signore è la mia roccia” (Sal 18,3), la “roccia della mia difesa” (Sal 31,4), la “roccia della nostra salvezza” (Sal 95,1).

I primi traduttori della Bibbia, i Settanta, si sono spaventati davanti a un’immagine così materiale di Dio che sembrava abbassarlo e hanno sistematicamente sostituito il concreto “roccia” con astratti, quali “forza”, “rifugio”, “salvezza”. Ma giustamente tutte le traduzioni moderne hanno restituito a Dio il titolo originale di roccia.

Roccia non è un titolo astratto; non dice soltanto cos’è Dio, ma anche cosa dobbiamo essere noi. La roccia è fatta per essere scalata, per cercarvi rifugio, non solo per essere contemplata da lontano. La roccia attira, appassiona. Se Dio è roccia, l’uomo deve diventare un “rocciatore”. Gesù diceva: “Imparate dal padrone di casa”; “Guardate i pescatori”; san Giacomo continua dicendo: “Guardate gli agricoltori”. Noi possiamo aggiungere: “Guardate i rocciatori!”. Se cala la notte o viene una bufera, non commettono l’imprudenza di tentare di scendere, ma ancora di più si stringono alla roccia e aspettano che passi la bufera.

L’insistenza della Bibbia sul Dio-roccia ha come scopo quello di infondere nella creatura fiducia, scacciando dal suo cuore le paure. “Non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare”, dice un salmo; e il motivo che si adduce è: “Nostra roccaforte è il Dio di Giacobbe” (Sal 46, 3.8). 

Dio c’è e tanto basta!

Il primo biografo di san Francesco d’Assisi, TOMMASO DA CELANO, descrive un momento di buio e quasi di sconforto che il santo visse verso la fine della sua vita, a causa delle deviazioni che vedeva intorno a sé dal primitivo stile di vita dei suoi frati.

Essendo turbato – scrive – per i cattivi esempi, e avendo fatto ricorso un giorno, così amareggiato, alla preghiera, si sentì apostrofato a questo modo dal Signore: “Perché tu, omiciattolo, ti turbi? Forse io ti ho stabilito pastore del mio Ordine in modo tale che tu dimenticassi che io ne rimango il patrono principale? […] Non turbarti dunque, ma attendi alla tua salvezza perché se l’Ordine si riducesse anche a soli tre frati, rimarrà il mio aiuto sempre stabile”.

Lo studioso francescano francese PADRE ELOI LECLERC, che meglio di tutti ha illustrato questa fase tormentata della vita di Francesco, dice che il Santo fu così rianimato dalle parole di Cristo che andava ripetendo tra sé una esclamazione: “Dieu est, et cela suffit. Francesco, Dio c’è e tanto basta! Dio c’è e tanto basta!”. 

Impariamo a ripetere anche noi queste semplici parole quando, nella Chiesa o nella nostra vita, ci troviamo in situazioni simili a quelle di Francesco. Dio c’è e tanto basta!

 

  • SANT’ANGELA DA FOLIGNO, Istruzioni III, Ed. Quaracchi 1985, p. 474.
  • SANT’ AGOSTINO, Confessioni, X, 27.
  • Zu den Sachen selbst”: è il programma della Scuola fenomenologica di HUSSERL.
  • SAN TOMMASO D’AQUINO, S.Th. II-IIae, q.1,a. 2, 2.
  • P. SARTRE, La nausea, Mondadori, Milano 1984, pp.193 s.
  • G. VON RAD, Theologie des Alten Testaments, I, Monaco 1966, p.194.
  • SANT’AGOSTINO, Commento al Salmo 85, 12 (CCL 39, p. 1136); cfr. anche Confessioni, X, 6, 9.
  • SAN GREGORIO NISSENO, In Cant. XI,5,2 (PG 44, 1001).
  • CELANO, Vita seconda CXVII, 158, Fonti Francescane, n. 74