- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 1973-1974)
Oltre ai suoi precetti, la Legge nuova comprende anche i consigli evangelici. La distinzione tradizionale tra i comandamenti di Dio e i consigli evangelici si stabilisce in rapporto alla carità, perfezione della vita cristiana. I precetti mirano a rimuovere ciò che è incompatibile con la carità. I consigli si prefiggono di rimuovere ciò che, pur senza contrastare con la carità, può rappresentare un ostacolo per il suo sviluppo (cfr SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae).
I consigli evangelici esprimono la pienezza vivente della carità, sempre insoddisfatta di non dare di più. Testimoniano il suo slancio e sollecitano la nostra prontezza spirituale. La perfezione della Legge nuova consiste essenzialmente nei comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. I consigli indicano vie più dirette, mezzi più spediti e vanno praticati in conformità alla vocazione di ciascuno: “Dio non vuole che tutti osservino tutti i consigli, ma soltanto quelli appropriati, secondo la diversità delle persone, dei tempi, delle occasioni e delle forze, stando a quanto richiede la carità; perché è lei che, come regina di tutte le virtù, di tutti i comandamenti, di tutti i consigli, in una parola, di tutte le leggi e di tutte le azioni cristiane, assegna a tutti il posto, l’ordine, il tempo, il valore” (SAN FRANCESCO DI SALES,
Trattato sull’amor di Dio, 8.6).
QUINTO COMANDAMENTO “NON UCCIDERE”
(prima parte)
“La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente”
(CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istr. Donum vitae).
Il rispetto della vita umana nella testimonianza della Storia Sacra La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del fratello Caino, (cfr Gen 4,8-12) rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale. L’uomo è diventato il nemico del suo simile. Dio dichiara la scelleratezza di questo fratricidio: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello” (Gen 4,10-11).
L’alleanza di Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e alla violenza omicida dell’uomo: “Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domando conto… Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio egli ha fatto l’uomo” (Gen 9,5-6). L’Antico Testamento ha sempre ritenuto il sangue come un segno sacro della vita. Questo insegnamento è necessario in ogni tempo.
La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: “Non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7). L’uccisione volontaria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano, alla “regola d’oro” e alla santità del Creatore. La legge che vieta l’omicidio ha una validità universale.
Nel Discorso della montagna il Signore richiama il precetto: “Non uccidere” (Mt 5,21); vi aggiunge la proibizione dell’ira, dell’odio, della vendetta. Ancora di più: Cristo chiede al suo discepolo di porgere l’altra guancia, (cfr Mt 5,22-39) di amare i propri nemici (cfr Mt 5,44). Egli stesso non si è difeso e ha ingiunto a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52).
- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Seconda predica di Quaresima, 2 marzo 2018)
“LA CARITÀ NON ABBIA FINZIONI” - L’ AMORE CRISTIANO
(seconda parte)
Carità con quelli di fuori
Dopo averci spiegato in che consiste la vera carità cristiana, l’Apostolo, nel seguito della sua parenesi, mostra come questo “amore sincero” deve tradursi in atto nelle situazioni di vita della comunità. Due sono le situazioni sulle quali l’Apostolo si sofferma: la prima riguarda i rapporti ad extra della comunità, cioè con quelli di fuori; la seconda, i rapporti ad intra, tra i membri della stessa comunità. Ascoltiamo alcune sue raccomandazioni che si riferiscono al primo rapporto, quello con il mondo esterno: “Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite […]. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina […]. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere […]. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rom 12,14-21).
Mai, come in questo punto, la morale del Vangelo appare originale e diversa da ogni altro modello etico, e mai la parenesi apostolica appare più fedele e in continuità con quella del Vangelo. Quello che rende tutto ciò particolarmente attuale per noi è la situazione e il contesto in cui questa esortazione viene rivolta ai credenti. La comunità cristiana di Roma è un corpo estraneo in un organismo che – nella misura in cui si accorge della sua presenza – lo rigetta. È una minuscola isola nel mare ostile della società pagana. Sappiamo quanto, simili circostanze, sia forte la tentazione di chiudersi in se stessi, sviluppando il sentimento elitario e arcigno di una minoranza di salvati in un mondo di perduti. Con questo sentimento viveva, in quello stesso momento storico, la comunità essena di Qumran.
La situazione della comunità di Roma descritta da Paolo rappresenta, in miniatura, la situazione attuale di tutta la Chiesa. Non parlo delle persecuzioni e del martirio a cui sono esposti i nostri fratelli di fede in tante parti del mondo; parlo dell’ostilità, del rifiuto e spesso del profondo disprezzo con cui non solo i cristiani, ma tutti i credenti in Dio sono guardati in vasti strati della società, specie in quelli più influenti e che determinano il sentire comune. Essi sono considerati appunto dei corpi estranei in una società evoluta ed emancipata.
L’esortazione di Paolo non ci permette di perderci un solo istante in astiose recriminazioni e in sterili polemiche. Non si esclude naturalmente di dare ragione della speranza che è in noi “con dolcezza e rispetto”, come raccomandava san Pietro (1Pt 3,15-16). Si tratta di capire qual è l’atteggiamento del cuore da coltivare nei confronti di una umanità che, nel suo insieme, rifiuta Cristo e vive nelle tenebre anziché nella luce (cfr Gv 3,19). Tale atteggiamento è quello di una profonda compassione e tristezza spirituale che porta ad amarli e soffrire per loro; a farsene carico davanti a Dio, come Gesù si è fatto carico di tutti noi davanti al Padre.
È questo uno dei tratti più belli della santità di alcuni monaci ortodossi. Penso a SAN SILVANO DEL MONTE ATHOS. Egli diceva: “Vi sono uomini i quali augurano ai loro nemici e ai nemici della Chiesa la rovina e i tormenti del fuoco della dannazione. Essi pensano in tal modo perché non sono stati istruiti dallo Spirito Santo nell’amore di Dio. Colui invece che veramente lo ha imparato versa lacrime per il mondo intero. Tu dici: ‘È malvagio e possa quindi bruciare nel fuoco dell’inferno’. Ma io ti domando: ‘Se Dio ti desse un bel posto in Paradiso e tu vedessi gettato nelle fiamme colui al quale tu lo auguravi, forse che neanche allora ti addoloreresti per lui, chiunque egli fosse, anche se nemico della Chiesa”.
Al tempo di questo santo monaco, i nemici erano soprattutto i bolscevichi che perseguitavano la Chiesa della sua amata patria russa. Oggi il fronte si è allargato e non esiste “cortina di ferro” al riguardo. Nella misura in cui un cristiano scopre la bellezza infinita, l’amore e l’umiltà di Cristo, non può fare a meno di sentire una profonda compassione e sofferenza per chi volontariamente si priva del bene più grande della vita. L’amore diventa in lui più forte di ogni risentimento. In una situazione simile, Paolo arriva a dirsi disposto a essere lui stesso “anatema, separato da Cristo”, se ciò poteva servire a farlo accettare da quelli del suo popolo rimasti fuori (cfr Rom 9,3).
- B) Per lo svolgimento dell’assemblea di Cenacolo/Delegazione o l’incontro di vita comune.
- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (n. 1966)
La Legge nuova è la grazia dello Spirito Santo, data ai fedeli in virtù della fede in Cristo. Essa opera mediante la carità, si serve del discorso del Signore sulla montagna per insegnarci ciò che si deve fare, e dei sacramenti per comunicarci la grazia di farlo: “Chi vorrà meditare con pietà e perspicacia il discorso che nostro Signore ha pronunciato sulla montagna, così come lo si legge nel Vangelo di san Matteo, indubbiamente vi troverà la «magna carta» della vita cristiana. [...] Questo discorso infatti comprende tutte le norme peculiari dell’esistenza cristiana” (SANT’AGOSTINO, De sermone Domini in monte).
- Da FABIO ROSINI, Prefazione alle Catechesi dei Comandamenti di papa Francesco
PAROLE, NON COMANDI
Potremmo riassumere in una immagine la “svolta” che le udienze del PAPA FRANCESCO sulle Dieci Parole possono dare a chi le accolga con semplicità e con profondità? La parola più ripetuta in tutte le catechesi, probabilmente è “figlio”.
Il poter ricondurre tutta la logica dell’obbedienza a Dio da una mentalità da sudditi ad una fiducia da figli dipende dall’immagine che si ha di Dio, e il Santo Padre dice: “La prima norma che Dio ha dato all’uomo, è l’imposizione di un despota che vieta e costringe, o è la premura di un papà che sta curando i suoi piccoli e li protegge dall’autodistruzione?... I suoi comandamenti sono solo una legge o contengono una parola, per curarsi di me? Dio è padrone, o Padre?”, e aggiunge a braccio: “Dio è Padre:
non dimenticatevi mai questo!”.
Non siamo sudditi, siamo figli.
- Da PAPA FRANCESCO, Catechesi all’udienza generale (del 2 settembre 2015)
LA FAMIGLIA E L’EVANGELIZZAZIONE
In questo ultimo tratto del nostro cammino di catechesi sulla famiglia, apriamo lo sguardo sul modo in cui essa vive la responsabilità di comunicare la fede, di trasmettere la fede, sia al suo interno che all’esterno.
In un primo momento, ci possono venire alla mente alcune espressioni evangeliche che sembrano contrapporre i legami della famiglia e il seguire Gesù. Per esempio, quelle parole forti che tutti conosciamo e abbiamo sentito: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38).
Naturalmente, con questo Gesù non vuole cancellare il quarto comandamento, che è il primo grande comandamento verso le persone. I primi tre sono in rapporto a Dio, questo in rapporto alle persone. E neppure possiamo pensare che il Signore, dopo aver compiuto il suo miracolo per gli sposi di Cana, dopo aver consacrato il legame coniugale tra l’uomo e la donna, dopo aver restituito figli e figlie alla vita famigliare, ci chieda di essere insensibili a questi legami! Questa non è la spiegazione. Al contrario, quando Gesù afferma il primato della fede in Dio, non trova un paragone più significativo degli affetti famigliari. E, d’altra parte, questi stessi legami familiari, all’interno dell’esperienza della fede e dell’amore di Dio, vengono trasformati, vengono “riempiti” di un senso più grande e diventano capaci di andare oltre se stessi, per creare una paternità e una maternità più ampie, e per accogliere come fratelli e sorelle anche coloro che sono ai margini di ogni legame. Un giorno, a chi gli disse che fuori c’erano sua madre e i suoi fratelli che lo cercavano, Gesù rispose, indicando i suoi discepoli: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,34-35).
La sapienza degli affetti che non si comprano e non si vendono è la dote migliore del genio famigliare. Proprio in famiglia impariamo a crescere in quell’atmosfera di sapienza degli affetti.
La loro “grammatica” si impara lì, altrimenti è ben difficile impararla. Ed è proprio questo il linguaggio attraverso il quale Dio si fa comprendere da tutti.
L’invito a mettere i legami famigliari nell’ambito dell’obbedienza della fede e dell’alleanza con il Signore non li mortifica; al contrario, li protegge, li svincola dall’egoismo, li custodisce dal degrado, li porta in salvo per la vita che non muore. La circolazione di uno stile famigliare nelle relazioni umane è una benedizione per i popoli: riporta la speranza sulla terra. Quando gli affetti famigliari si lasciano convertire alla testimonianza del Vangelo, diventano capaci di cose impensabili, che fanno toccare con mano le opere di Dio, quelle opere che Dio compie nella storia, come quelle che Gesù ha compiuto per gli uomini, le donne, i bambini che ha incontrato. Un solo sorriso miracolosamente strappato alla disperazione di un bambino abbandonato, che ricomincia a vivere, ci spiega l’agire di Dio nel mondo più di mille trattati teologici. Un solo uomo e una sola donna, capaci di rischiare e di sacrificarsi per un figlio d’altri, e non solo per il proprio, ci spiegano cose dell’amore che molti scienziati non comprendono più. E dove ci sono questi affetti famigliari, nascono questi gesti dal cuore che sono più eloquenti delle parole. Il gesto dell’amore..... Questo fa pensare.
La famiglia che risponde alla chiamata di Gesù riconsegna la regia del mondo all’alleanza dell’uomo e della donna con Dio. Pensate allo sviluppo di questa testimonianza, oggi. Immaginiamo che il timone della storia (della società, dell’economia, della politica) venga consegnato - finalmente! - all’alleanza dell’uomo e della donna, perché lo governino con lo sguardo rivolto alla generazione che viene. I temi della terra e della casa, dell’economia e del lavoro, suonerebbero una musica molto diversa!
Se ridaremo protagonismo – a partire dalla Chiesa – alla famiglia che ascolta la parola di Dio e la mette in pratica, diventeremo come il vino buono delle nozze di Cana, fermenteremo come il lievito di Dio!
In effetti, l’alleanza della famiglia con Dio è chiamata oggi a contrastare la desertificazione comunitaria della città moderna. Ma le nostre città sono diventate desertificate per mancanza d’amore, per mancanza di sorriso. Tanti divertimenti, tante cose per perdere tempo, per far ridere, ma l’amore manca. Il sorriso di una famiglia è capace di vincere questa desertificazione delle nostre città. E questa è la vittoria dell’amore della famiglia. Nessuna ingegneria economica e politica è in grado di sostituire questo apporto delle famiglie. Il progetto di Babele edifica grattacieli senza vita. Lo Spirito di Dio, invece, fa fiorire i deserti (cfr Is 32,15). Dobbiamo uscire dalle torri e dalle camere blindate delle élites, per frequentare di nuovo le case e gli spazi aperti delle moltitudini, aperti all’amore della famiglia.
La comunione dei carismi – quelli donati al Sacramento del matrimonio e quelli concessi alla consacrazione per il Regno di Dio – è destinata a trasformare la Chiesa in un luogo pienamente famigliare per l’incontro con Dio. Andiamo avanti su questa strada, non perdiamo la speranza. Dove c’è una famiglia con amore, quella famiglia è capace di riscaldare il cuore di tutta una città con la sua testimonianza d’amore.
Pregate per me, preghiamo gli uni per gli altri, perché diventiamo capaci di riconoscere e di sostenere le visite di Dio. Lo Spirito porterà lieto scompiglio nelle famiglie cristiane, e la città dell’uomo uscirà dalla depressione!
- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Seconda predica di Quaresima, 2 marzo 2018)
“LA CARITÀ NON ABBIA FINZIONI” - L’ AMORE CRISTIANO
(terza parte)
La carità ad intra
Il secondo grande campo di esercizio della carità riguarda, si diceva, i rapporti all’interno della comunità: in pratica, come gestire i conflitti di opinioni che emergono tra le diverse sue componenti. A questo tema l’Apostolo Paolo dedica l’intero capitolo 14 della Lettera ai Romani.
Il conflitto allora in atto nella comunità romana era tra quelli che l’Apostolo chiama “i deboli” e quelli che chiama “i forti”, tra i quali pone se stesso (“Noi che siamo i forti…”) (Rom 15,1). I primi erano coloro che si sentivano moralmente tenuti a osservare alcune prescrizioni ereditate dalla Legge o da precedenti credenze pagane, come il non mangiare carne (in quanto c’era il sospetto che fosse stata immolata agli idoli) e il distinguere un giorno dall’altro. I secondi, i forti, erano quelli che, in nome della libertà del Vangelo, avevano superato questi tabù e non distinguevano cibo da cibo o giorno da giorno. La conclusione del discorso (cfr Rom 15,7-12) fa capire che sullo sfondo c’è il solito problema del rapporto tra credenti provenienti dal giudaismo e credenti provenienti dai gentili.
Le esigenze della carità che l’Apostolo inculca in questo caso ci interessano in sommo grado perché sono le stesse che si impongono in ogni tipo di conflitto intraecclesiale, compresi quelli che viviamo oggi, sia a livello di Chiesa universale che della comunità particolare in cui ognuno vive.
I criteri che l’Apostolo suggerisce sono tre. Il primo è seguire la propria coscienza. Se uno è convinto in coscienza di fare peccato facendo una certa cosa, non deve farla. “Tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza – scrive l’Apostolo – è peccato” (Rom 14,23). Il secondo criterio è rispettare la coscienza altrui e astenersi dal giudicare il fratello: “Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? […] D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello” (Rom 14,10.13). Il terzo criterio riguarda soprattutto “i forti” ed è di evitare di dare scandalo: “Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù – prosegue l’Apostolo – che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! […] Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole” (Rom 14,14-19).
Tutti questi criteri sono però particolari e relativi, rispetto a un altro che è invece universale e assoluto, quello della signoria di Cristo. Sentiamo come lo formula l’Apostolo: “Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio. Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rom 14,6-9).
Ognuno è invitato a esaminare se stesso per vedere cosa c’è al fondo della propria scelta: se c’è la signoria di Cristo, la sua gloria, il suo interesse, o non invece, più o meno larvatamente, la propria affermazione, il proprio “io” e il proprio potere; se la sua scelta è di natura veramente spirituale ed evangelica, o se non dipende invece dalla propria inclinazione psicologica, o, peggio, dalla propria opzione politica. Questo vale nell’uno e nell’altro senso, cioè sia per i cosiddetti forti che per i cosiddetti deboli; sia, diremmo noi oggi, per chi sta dalla parte della libertà e novità dello Spirito, sia per chi sta dalla parte della continuità e della tradizione.
C’è una cosa di cui si deve tener conto per non vedere, nell’atteggiamento di Paolo su questo argomento, una certa incoerenza rispetto al suo insegnamento precedente. Nella Lettera ai Galati egli sembra assai meno disponibile al compromesso e a tratti si mostra addirittura adirato. (Se avesse dovuto subire il processo di canonizzazione oggi, difficilmente Paolo sarebbe diventato santo perché sarebbe stato piuttosto difficile dimostrare la “eroicità” della sua pazienza! Egli a volte “sbotta”, però poteva dire: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me” (Gal 2,20), e questa, si è visto, è l’essenza della santità cristiana).
Nella Lettera ai Galati, Paolo rimprovera a Pietro quello che qui sembra raccomandare a tutti, e cioè di astenersi dal mostrare la propria convinzione per non dare scandalo ai semplici. Pietro infatti, ad Antiochia, era persuaso che mangiare con i gentili non contaminasse un giudeo (era già stato in casa di Cornelio!), ma si astiene dal farlo per non dare scandalo ai giudei presenti (cfr Gal 2,11-14). Paolo stesso, in altre circostanze, agirà allo stesso modo (cfr At 16,3; 1Cor 8,13).
La spiegazione non sta naturalmente solo nel temperamento di Paolo. Anzitutto, la posta in gioco ad Antiochia era molto più chiaramente legata all’essenziale della fede e alla libertà del Vangelo di quanto pare che si trattasse a Roma. In secondo luogo – ed è il motivo principale – ai Galati Paolo parla come fondatore della Chiesa, con l’autorità e la responsabilità del pastore; ai Romani parla a titolo di maestro e fratello nella fede: per contribuire, dice, alla comune edificazione (cfr Rom 1,11-12). C’è differenza tra il ruolo del pastore a cui è dovuta l’obbedienza e quello del maestro a cui sono dovuti soltanto il rispetto e l’ascolto.
Questo ci fa capire che ai criteri di discernimento menzionati se ne deve aggiungere un altro, e cioè il criterio dell’autorità e dell’obbedienza. Di essa l’Apostolo ci parlerà nel seguito della sua parenesi con le ben note parole: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio” (Rom 13,1).
Nel frattempo ascoltiamo come rivolta a noi, negli inevitabili conflitti che sorgono in seno alla comunità locale o universale, l’esortazione conclusiva che l’Apostolo rivolgeva alla comunità romana di allora: “Accoglietevi dunque gli uni gli altri, come anche Cristo accolse voi per la gloria di Dio” (Rom 15,7).
- Cfr Le cause dei santi. Sussidio per lo Studium, a cura della CONGREGAZIONE DELLE CAUSE DEI SANTI, Libreria Editrice Vaticana, 3a ed. 2014, pp. 13-81.
- ARCHIMANDRITA SOFRONIO, Silvano del Monte Athos. La vita, la dottrina, gli scritti, Torino 1978, pp. 255 s.
- Dalla LITURGIA, Colletta della XI settimana del T.O., anno C
O Dio, fortezza di chi spera in te, ascolta benigno le nostre invocazioni, e poiché nella nostra debolezza nulla possiamo senza il tuo aiuto soccorrici con la tua grazia perché fedeli ai tuoi comandamenti
possiamo piacerti nelle intenzioni e nelle opere. Per Cristo nostro Signore. Amen.
* * *
Per concludere, ci possiamo confrontare con alcuni brevi testi di diverse epoche e ambienti in cui gli autori, santi o maestri di vita spirituale, hanno vissuto; il tenore e il temperamento che traspare sono molto diversi, ma si completano bene.
- Il primo è tratto da una lettera di direzione spirituale di SAN PADRE PIO DA PIETRELCINA (18871968):
… Va’ avanti con semplicità sulle vie del Signore, e non preoccuparti. Odia i tuoi difetti, sì, ma tranquillamente, senza agitazione, né inquietudine. Bisogna usare pazienza a loro riguardo e trarne profitto grazie ad una santa umiltà. Per mancanza di pazienza, le tue imperfezioni, anziché scomparire, non faranno che crescere. Perché non c'è niente che rinforza tanto i nostri difetti quanto l'inquietudine e l'ossessione di liberarsi di loro.
Coltiva la tua vite di comune accordo con Gesù. A te spetta togliere le pietre e strappare i rovi. A Gesù, spetta seminare, piantare, coltivare ed annaffiare. Ma anche nel tuo lavoro, agisce ancora lui. Senza Cristo infatti, non potresti fare nulla. …
- Il secondo testo è del SANTO VESCOVO MONS. OSCAR ARNULFO ROMERO (1917-1980), dalla
Lettera pastorale ai fedeli della diocesi di El Salvador, il 6 agosto 1977:
… Oggi, pur severi verso il peccato individuale, dobbiamo vedere con chiarezza anche il peccato sociale, cioè la cristallizzazione degli egoismi individuali in strutture permanenti che schiacciano la grande maggioranza dei popoli. …
Gesù proclamò di essere stato mandato per annunciare ai poveri la Buona Notizia, per proclamare la liberazione ai prigionieri e ridare la vista ai ciechi, per dare libertà agli oppressi e promulgare un anno di grazia. La Chiesa deve comportarsi come Lui: deve denunciare l’egoismo che si nasconde nel cuore di ognuno, il peccato che disumanizza gli uomini, sfascia le famiglie, trasforma in fine degli uomini il denaro, il possesso, il guadagno, il potere. E deve denunciare quello che a ragione è stato definito il peccato strutturale, cioè quelle strutture sociali, economiche, culturali e politiche che emarginano la grande maggioranza del nostro popolo… Ma, come quella di Cristo, la denuncia della Chiesa non è ispirata dall’odio e dal risentimento, cerca soltanto la conversione dei cuori e la salvezza di tutti. …
- Possiamo aggiungere un brano già proposto nel programma di formazione dello scorso anno, di DON DIVO BARSOTTI, dal “Vademecum”:
… Non dobbiamo affermare la nostra indipendenza: dobbiamo piuttosto esercitare tutta la nostra personalità nel rinunziarvi per vivere la volontà del Signore, per far sì che Lui viva e noi viviamo per Lui.
Noi rimarremo sempre distinti da Lui, ma come la sposa dallo sposo, per vivere un semplice abbandono, una semplice dipendenza, un dono totale di noi stessi. Purificazione dunque. Tanto Dio agirà in noi quanto noi saremo purificati. Naturalmente, quando noi fossimo interamente purificati, non si potrebbe più neanche parlare di docilità: sarebbe lo stesso Spirito Santo allora a trascinarci; ma siccome questa purificazione non sarà mai piena, per questo noi dovremo costringerci prima all’obbedienza ai Comandamenti di Dio, quando Dio ci rimane quasi un estraneo e ci comanda dal di fuori; poi alla docilità a un’azione segreta di Dio. …
- Da ultimo ascoltiamo una frase di DON GIUSEPPE DOSSETTI tratta da “Tra eremo e passione civile. Percorsi biografici e riflessioni sull’oggi”:
… La frequentazione abituale della Parola di Dio ci muta completamente come sensibilità, intuito, gusto, sapienza: perché ci dona continuamente, con una elargizione munifica e generosissima, quello che ci comanda di fare. …
* * *
Al termine di questo primo anno dedicato alle DIECI PAROLE, sono graditi suggerimenti e contributi per la preparazione della seconda parte, o per altri argomenti da trattare negli anni successivi.