- Da Papa Francesco, Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale “Fratelli tutti”
- 274. A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli. Crediamo che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce se stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali» (Discorso ai leader di altre religioni e altre denominazioni cristiane, Tirana – Albania, 21 settembre 2014).
- Dalla vita e dagli scritti di Madeleine Delbrêl (1904 – 1964)
(prima parte)
Madeleine Delbrêl nasce a Mussidan, nella Dordogna il 24 ottobre 1904. Educata cristianamente, frequenta il catechismo, scrive poesie, suona il pianoforte; è dotata di una intelligenza molto vivace. Verso i 17 anni abbandona la fede e diventa atea. Conosce un ragazzo cristiano del quale si innamora e corrisposta sembra avviata al matrimonio, ma Jean improvvisamente la lascia per entrare nei frati domenicani. Da questo fatto inizia per lei un cammino di ricerca che la porta a ritrovare la fede: aveva scoperto Colui che sarà sempre per lei “un qualcuno” … Aveva vent’anni.
In un primo tempo pensa di chiudersi nel Carmelo. Conosce padre Lorenzo che resterà suo confessore fino alla morte. Al suo seguito scoprì il Vangelo nella sua radicalità.
Il suo primo impegno riguardò lo scoutismo, ma poco a poco insorse in lei il desiderio di inserirsi negli ambienti dei senza fede e dei poveri per vivervi il Vangelo “gomito a gomito”.
Nel suo progetto coinvolse due fra le sue amiche. Tutte assieme arrivarono a un diploma di assistente sociale, per poter esercitare un’attività che le mettesse in maniera naturale a contatto con la gente. E fu così che il 15 ottobre 1933 le nostre si trovarono catapultate a Ivry-sur-Seine, in un’autentica periferia comunista che non avrebbero mai più abbandonato e dove morirà il 13 ottobre 1964.
Dopo varie vicissitudini nel 1945 Madeleine decise di abbandonare il Servizio Sociale del Comune.
Da un contatto approfondito con i testi di Lenin e da una rilettura spassionata del Vangelo aveva ricavato la convinzione che per lei era difficile vivere radicalmente la propria fede cristiana e svolgere le proprie attività apostoliche come aveva fatto fino a quel momento in stretta collaborazione con i marxisti. Furono complicati anche i suoi rapporti con le varie parrocchie.
Arrivata a Ivry, vi aveva scoperto una comunità cristiana ripiegata su se stessa, che escludeva qualsiasi contatto con i comunisti. Molti furono i cristiani che si sentirono minacciati nelle proprie abitudini dalle sue analisi e dai suoi richiami al dialogo con i non credenti.
Le sue parole erano sì incisive, ma mai violente: era lei la prima a dare esempio della bontà che andava predicando agli altri. Madeleine e le sue amiche erano mobilitate nell’umile servizio ai bisognosi, ma anche aperte ad appoggiare grandi cause di interesse internazionale. Altre ragazze vennero ad aggregarsi e arrivate al numero di venti, si divisero in piccoli gruppi con lo stesso ideale degli inizi: donne laiche unite dal desiderio di vivere i consigli evangelici in mezzo ai poveri e ai miscredenti, in una vita di stretta fraternità.
Per inclinazione personale, avrebbe forse preferito vivere in campagna, ma era attesa in città.
E si chiedeva: “Perché è così importante il canto di un’allodola su un campo di grano, che risulterebbe compatibile con il silenzio, e non il rumore della strada, dei bambini che vanno a scuola, degli uomini che tornano dal lavoro e delle donne che fanno le pulizie in casa?”.
Sulla realtà spirituale della nostra epoca Madeleine ha fatto una diagnosi che rimane vera ancor oggi: “Un grande pericolo incombe sulla Chiesa, il pericolo di un mondo in cui Dio non sarà solamente negato, ma ignorato e rigettato. Il pericolo di un mondo in cui l’uomo avrà preso il posto del Creatore …”. Non ci si accontenta di negare Dio, ma si vive tranquillamente come se non ci fosse. “Ciò contro cui mi ribello è un sedicente diritto alla giovinezza eterna”. E il comunismo voleva essere in qualche modo questa giovinezza. E di esso diceva: “Dategli tempo qualche decina d’anni e gli chiederanno di mettersi da parte”, e così è stato; è il destino di tutto ciò che è umano.
“Solo Dio è abbastanza giovane per sempre e una delle nostre miserie peggiori è presentarlo al mondo come un vecchio inquieto …”.
“Salvare il mondo non significa offrigli la felicità, ma dare un senso alla sua sofferenza e regalargli una gioia che nessuno può sottrarre”. Così si rivolgeva a un giovane prete: “Gli auguriamo di credere alla gioia, alla gioia cristiana … e bisogna crederlo sia quando le cose ci fanno del bene, ma anche quando ci accorgiamo che ci fanno del male. Credere che nulla al mondo ci può portare via questa gioia”.
Il primo nome del gruppo di Madeleine è stato “La carità”, una parola che in quel contesto si aveva quasi paura a pronunciare. La Chiesa non era particolarmente in auge, ma Madeleine non si faceva prendere dallo sconforto. Non ha mai fatto mistero del suo amore per la Chiesa e non le piaceva sentir parlare della “Chiesa di Madeleine”. La sua verità era “Madeleine nella Chiesa”.
Nel 1941 in Francia viene creata la “Mission de France”. Diversi sacerdoti desiderosi di condividere la vita dei lavoratori del loro tempo, diventano preti operai. … Dopo diverse vicissitudini, nel 1954 Paolo VI autorizza di nuovo i sacerdoti a lavorare nei cantieri e nelle fabbriche. Nel 2002 ai sacerdoti e ai diaconi si aggregano, per la prima volta, i laici.
“Mentre il Vangelo ci impegna a una vita di fraternità rigorosa con gli uomini, la fede ci offre spiegazioni chiare sui rapporti che dobbiamo mantenere con coloro che, nella Chiesa, sono il Cristo. Se il Vangelo ci ha insegnato che nessun uomo è per noi un estraneo, la vita di fede ci insegna che nulla di ciò che è la Chiesa può essere esteriore a noi”.
Dagli Scritti delle Comunità, Not 153
- padre Andrea Gasparino, da “Camminate secondo lo Spirito”
ANNUNCIATE IL VANGELO AD OGNI CREATURA
È nella logica dell’amore che ci impegnano all’annuncio: per imitazione di Cristo, per obbedienza al suo comando, per amore e gratitudine a Cristo. Gesù era instancabile nell’andare di villaggio in villaggio a istruire i poveri: dobbiamo imitarlo, Gesù ne ha dato un ordine perentorio: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). Dobbiamo obbedirlo.
Un compito specifico del nostro annuncio ci pare sia questo: andare ai poveri per offrire loro il dono della preghiera. Il primo annuncio non sta tanto nel parlare di Dio, ma piuttosto nel testimoniarlo nella verità di una vita vissuta per Dio. Chi è posseduto da Dio più profondamente, ha maggiori possibilità di comunicarlo. La formazione dei giovani non sia mai disgiunta dalla formazione dell’amore al povero.
È una mentalità efficentista valutare il nostro annuncio dal numero delle persone raggiunte. Non si anteponga mai il numero al valore della singola persona. “Portare Dio” ad un solo uomo sulla terra vale una vita.
Sovente Dio si comunica solo pregando, è solo Dio che tocca i cuori e fa il dono della fede. Noi dobbiamo implorare lo Spirito e seguirlo in tutto quello che ci suggerisce, ma essere rispettosi dei suoi tempi e dei suoi modi di agire.
L’impegno dell’annuncio deve far crescere e arricchire la nostra vita interiore. Se l’annuncio impoverisce, ne abbiamo perso il significato profondo e l’autenticità. Comunica facilmente Dio ai fratelli chi sa coglierlo in ogni persona, in ogni avvenimento.
Dagli scritti delle Comunità, Not 153
- don Divo Barsotti, dal “Vademecum”
LO SPIRITO ECCLESIALE DELLA COMUNITÀ
(seconda parte)
Dal Concilio abbiamo imparato anche la necessità di un ritorno al Vangelo. Questa liberazione da strutture giuridiche, da formulazioni concettuali troppo rigide, ha ridonato a tutta la Chiesa un carattere più fluido, più malleabile, più docile all’azione dello Spirito. Ogni riforma della Chiesa importa sempre un ritorno alle fonti, un ritorno al Vangelo, il Vangelo «sine glossa», senza commenti; il bisogno della povertà, della semplicità.
Questi debbono essere aspetti essenziali della nostra spiritualità anche in seno alla Comunità. Dobbiamo dunque avere il senso di un’unione maggiore con la Chiesa, e non solo di una dipendenza della Chiesa, ma di un bisogno di realizzare il suo mistero. Qualunque cosa si faccia, si esercita una funzione ecclesiale, perché in qualunque nostra attività noi partecipiamo e continuiamo il mistero stesso del Cristo nella sua funzione rivelatrice, nella sua funzione regale, nella sua funzione sacerdotale. E questo non solo i vescovi, non solo i sacerdoti, ma anche i laici. In una misura più o meno grande e nel proprio ambito, ciascuno esercita questa funzione. …
Inoltre la Chiesa non si definisce, non si chiude soltanto in quell’aspetto giuridico nel quale noi siamo stati abituati a riconoscerla: la Chiesa in atto primo è già tutto l’universo, perché tutto l’universo è chiamato a farne parte, misteriosamente. Noi sappiamo che essa si estende, va al di là di quelli che sono i suoi confini visibili, essa penetra già il mondo e lo solleva, lo lievita dall’intimo. Questo noi dobbiamo sentire, questo noi dobbiamo vivere, questo noi dobbiamo cercare di realizzare nella nostra spiritualità. …
Ci sembra poi che la nostra Comunità implichi una concezione teologicamente più profonda della Chiesa come mistero, in tal modo che ciascuno di noi si senta veramente al cuore dell’universo, senta veramente di identificarsi a tutta la Chiesa. Non vivere più la nostra vita spirituale come una solitaria ricerca della propria perfezione individuale; si senta ciascuno di noi veramente membro di un corpo, si senta veramente inserito in questo corpo, vivente in questo corpo, per questo corpo, in tal modo da identificarsi, al limite estremo, con il corpo intero. Perché una sola è la sposa e ognuno di noi è l’unica sposa nella misura in cui realizza la propria vocazione cristiana.
Vivere questo per noi vuol dire in fondo realizzare la spiritualità evangelica, come figli del Padre, anzi ciascuno di noi come il Figlio Unigenito. S’impone la fedeltà alla tradizione spirituale, che implica prima di tutto una fedeltà allo studio, alla meditazione dei Libri Sacri che sono il fondamento di ogni tradizione spirituale e massimamente di quei testi che già si caratterizzano per una spiccatissima nota contemplativa. Poi, per quanto riguarda la tradizione spirituale, la conoscenza, l’amore dei grandi maestri della spiritualità antica più che della moderna: Benedetto, Cassiano, Bernardo, i Padri del deserto, ...
Ciascun membro della Comunità, per vivere come lievito nel quadro di rinnovamento della Chiesa, deve tendere allo sforzo amoroso ed umile di una quotidiana conversione. “Vivere nel mondo come lievito nella pasta”. Questa espressione fu l’argomento di un nostro ritiro di forse venti anni fa, ed era allora l’espressione di una donna sconosciuta che aveva iniziato un movimento religioso, il Movimento delle Piccole Sorelle.
Oggi noi ritroviamo questa stessa espressione canonizzata dal Magistero ecclesiastico a definire la vocazione religiosa propria del laico in seno alla Chiesa. Questo vuol dire che la nostra vocazione implica per noi un rimanere nel mondo, un vivere la vita degli altri fratelli, una solidarietà con tutti per la trasfigurazione di ogni condizione umana, di ogni valore terreno, per la riconsacrazione a Dio di tutte quante le cose.
Riteniamo, come sempre ha ritenuto la Chiesa nella sua tradizione storica, che il monachesimo non separi per sé dalla assemblea cristiana, cioè dai laici. Il monaco, in quanto monaco, è un laico che vive fino in fondo la propria vocazione cristiana. Il monaco è un testimone, è colui che vive la vocazione del laico fino alle ultime conseguenze, fino alle esigenze di una santità piena.
Oggi non si potrebbe dire che i monaci, comunemente intesi, siano laici. Essi appartengono ai religiosi e pertanto non sono più dei semplici laici. Ma gli Istituti secolari non fanno parte dei religiosi, fanno parte di uno stato di perfezione; i loro membri sono laici e vogliono vivere come laici la pienezza della vita cristiana, la vocazione alla santità, la missione propria del laico, che è quella di ricondurre in seno alla Chiesa tutti i valori umani.
La funzione del laico oggi è estremamente importante. Se vogliamo che la Liturgia abbia di nuovo tutta la sua potenza santificatrice per la formazione alla santità di tutto il popolo cristiano, bisogna che l’attività laicale sia tale, nel ricondurre a Cristo tutti i valori umani, che la Liturgia divenga quasi un modo spontaneo, naturale: il supremo fiore, il supremo frutto della vita umana, di questa vita umana che nella cristianità non può essere che soprannaturale, non può essere che vita di grazia.