- Da Papa Francesco, Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale “Fratelli tutti”
Pensare e generare un mondo aperto
- 87. Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non attraverso un dono sincero di sé» ( Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 24). E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri: «Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro» (Gabriel Marcel, Du refus à l’invocation, ed. NRF, Paris 1940, 50). Questo spiega perché nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza umana, perché «la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte» (Angelus 10 novembre 2019).
- Dalla vita e dagli scritti del Beato Charles de Foucauld (1858 – 1916)
(seconda parte)
Così Charles pregava mentre era in ricerca: “Dio mio, se esisti, fammelo sapere”.
Una sera “il caso” volle che incontrasse padre Huvelin, uomo di Dio “fatto preghiera”, come avrebbe detto lo stesso Charles; e la santità è ciò che esercita il maggior potere di attrazione sulle persone. Alcuni giorni dopo disse a sua cugina: “Tu sei felice di credere, io cerco la luce e non la trovo”. Il giorno successivo padre Huvelin vide entrare nel suo confessionale della chiesa di Sant’Agostino un giovane che si inginocchiò, chinò il capo e disse: “Padre, non ho fede, vengo a chiederle di istruirmi”. Il sacerdote lo guardò: “Confessa a Dio i tuoi errori, allora crederai”. “Ma io non sono venuto per questo”. E lui: “Confessati!”. Colui che voleva credere capì che il perdono era la condizione della luce. Si inginocchiò e confessò tutta la sua vita.
Charles nutriva il desiderio di conoscere la Terra Santa, così in dicembre 1888 giunse a Gerusalemme coperta di neve. A Nazareth si fermò a meditare alcune parole di padre Huvelin: “Tu, Signore nostro, avevi preso in modo tale l’ultimo posto, che mai nessuno avrebbe potuto rapirtelo”.
Dal momento stesso della conversione aveva sentito di essere chiamato alla vita religiosa. Lui stesso dirà: “Nello stesso attimo in cui cominciai a credere, compresi che non potevo fare altro che vivere per Lui; la mia vocazione religiosa risale alla stessa ora della mia fede”.
Dalle sue parole: “Ho finalmente preso la decisione a cui penso da tanto tempo: entrare nella Trappa. Sono stato in quattro monasteri e nei quattro ritiri ho capito che Dio mi chiamava e mi chiamava nella Trappa. La mia anima mi attira verso di essa e il mio direttore (padre Huvelin) è dello stesso parere”. Il visconte Charles de Foucauld fu ammesso al noviziato dell’Ordine col nome di fratel Maria Alberico. Chiese ed ottenne di essere mandato nel monastero più povero e lontano dell’Asia Minore. La sua scelta era motivata dal voler risiedere il più vicino possibile ai luoghi in cui visse Gesù.
Dal momento della sua conversione cambierà luoghi e motivazioni, e lo vedremo molto bene nel proseguo della narrazione; questo è certo dovuto alle risposte che si darà in un cammino di preghiera e di “lectio” continua che farà con la Parola di Dio. Un innamorato non cambia la sposa ma la segue dovunque vada. E sarà un percorso interessantissimo, inseguendo il desiderio che la Parola suscitava in lui … Prima insegue dei luoghi, poi delle persone, per arrivare a spendere la sua vita per quelli che chiamerà “fratelli”, non più sconosciuti ma intimi e amati fino a dare la vita per loro: un “per loro” che sarà un “per tutti” … Amerà chiamarsi “fratello universale”.
L’abate Huvelin, raccomandandolo al priore dell’abbazia di Solesmes, così lo presenta: “Uno che fa della religione un atto di amore”.
Appena entrato nella trappa comincia a pensare a una congregazione secondo il suo desiderio di vivere la vita di Gesù a Nazareth. A madame Blondy scrive: “Condurre quanto più esattamente possibile la stessa vita di Nostro Signore, vivendo unicamente del lavoro delle mani, senza accettare nessun dono, né alcuna questua e seguendo letteralmente i suoi consigli, non possedendo niente, dando a chiunque chieda, non esigendo niente, privandosi del più possibile. … Aggiungere a questo lavoro molte preghiere, … non formare che piccoli gruppi, diffondersi ovunque, soprattutto nei paesi infedeli e abbandonati, e nei quali sarebbe così dolce aumentare l’amore e i servi di Nostro Signore Gesù”.
Padre Huvelin, dopo aver letto le Costituzioni che Charles pensava di vivere, disse: “La tua regola è praticamente impraticabile, il Papa esitò ad approvare la regola francescana perché la trovava troppo severa, e che dire, allora, di questa? A essere sincero mi hai spaventato. Vivi sulla soglia di una comunità, ma, per favore, non redigere regole!”.
- Dallo Statuto e dal Direttorio
Stat. 1.5) La Comunità dei Figli di Maria di Nazareth, anche se si configura con una sua specificità e peculiarità, ha trovato un aiuto per la sua ispirazione e un riferimento spirituale per il proprio cammino nella Piccola Regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata, nello Statuto della Comunità dei Figli di Dio e negli scritti di don Divo Barsotti.
Dir. 1.5) Riferimenti spirituali. (Si vedano i “Brevi cenni storici”, “Radici e fonti comunitarie” – suppl. al Not 97 ed “Esortazioni alla Comunità da parte della Chiesa di Bologna” – Not 103).
La Provvidenza ha voluto far progredire la nostra realtà comunitaria a contatto con queste Comunità: la Piccola Famiglia dell’Annunziata (don Giuseppe Dossetti) e la Comunità dei figli di Dio (don Divo Barsotti).
Nella Piccola Famiglia si è trovata un’esperienza di vita cristiana, dal card. Biffi definita nel loro Statuto “monastica” in senso stretto, e soprattutto un grande amore per la Parola di Dio che ha contagiato tutti; da essa si è appresa la “lectio divina” e si è accolto il calendario biblico. La Piccola Regola di questa Comunità è stata assunta, come ispirazione fondamentale, dalle Sorelle del secondo ramo.
Nella Comunità dei Figli di Dio si è visto lo spirito di un “monachesimo interiorizzato”: la ricerca di “Dio solo” come ideale di vita proposto ai fedeli di ogni stato, in aiuto reciproco e comunitario. …
In modo particolare/proprio, questo articolo dello Statuto e Direttorio motiva il nostro approfondimento con gli scritti e i documenti, in questa come nei precedenti programmi di formazione, di don Divo Barsotti (a cui chiedemmo rispettosamente, ricevendo risposta positiva, di poter attingere alla loro ricchezza spirituale) e anche di padre Andrea Gasparino fondatore del “Movimento contemplativo missionario padre De Foucauld” (al quale attingemmo, oltre che dagli scritti, anche dalle cassette e in presenza ai “ritiri/deserti”). Ad essi dobbiamo molta riconoscenza.
Dagli Scritti delle Comunità, Not 153
- padre Andrea Gasparino, da “Camminate secondo lo Spirito”
VITA DI FRATERNITÀ
La Comunità è divisa in piccole fraternità, perché vogliamo dare alla nostra vita consacrata il tepore della casa di Nazareth e la ricchezza della vita di famiglia. La vita in piccoli gruppi è più difesa dai compromessi, è più facilmente autentica. Nel piccolo gruppo nulla si può mascherare. Nel piccolo gruppo si può giungere ad una carità più perfetta per realizzare la presenza di Cristo in mezzo a noi.
La vita comunitaria è una chiamata all’amore: siamo stati chiamati alla vita comunitaria non in vista dell’efficienza, ma per testimoniare l’amore. Gesù ha assicurato la sua presenza tangibile in mezzo a coloro che sono riuniti nel suo nome. Per questo lo sforzo di essere un cuor solo nella fraternità sfocia in una pienezza di vita.
Gesù ha voluto i suoi riuniti fin dall’inizio in una piccola comunità; ha inviato i discepoli davanti a sé a due a due; ciò significa che Gesù ha visto nella vita comunitaria l’ambiente per la crescita dei suoi discepoli. La vita comunitaria comporta la lotta con noi stessi, con i nostri limiti e con i limiti altrui: comporta cioè la croce, ma la croce va accolta perché è il segno del discepolo di Cristo, ed è la strada che porta frutti di amore.
Non c’è vita comunitaria seria senza l’amore alla croce e senza una visuale di fede. Il segno della vera fraternità deve essere l’affetto con cui ci accogliamo, che si esprime attraverso piccoli gesti concreti di amore. La carità fra di noi non è autentica se non tende verso l’amicizia calda e sincera, proprio perché siamo consacrati alla “vita insieme” nel nome del Signore.
È importante nella vita di fraternità tenere vivo il clima di gioia. Non è possibile la donazione eroica ai poveri finché escludiamo da un sincero amore anche un solo fratello della comunità. La fraternità è prima dei poveri ed è garanzia di una donazione autentica ai poveri.
Cristo ha pregato per l’unità dei suoi: la sua preghiera raggiunge anche noi.
Sentirci famiglia
Lo spirito di famiglia è un carisma prezioso della comunità da custodire, difendere, sviluppare. Siamo molto riconoscenti a Dio per questo dono, il sentirci famiglia dà tono alla nostra consacrazione, ci fa sperimentare la ricchezza della vita comunitaria, la gioia dell’andare a Dio insieme; è un grande sostegno nei momenti difficili e, sviluppando la nostra maturazione all’amore, rende più facile il nostro impegno di castità. Rinunciamo, per amore a Cristo a formarci una famiglia, ma non rinunciamo ad amare e ad amare intensamente, per questo ognuno di noi accolga con gratitudine il clima di famiglia della Comunità e si senta responsabile fino in fondo di questo dono.
Difendiamo e sviluppiamo lo spirito di famiglia eliminando ogni distanza con i responsabili, confidando a cuore aperto le nostre pene e i nostri problemi, parlando con semplicità e schiettezza dei nostri errori e delle nostre debolezze; godendo con la semplicità dei fanciulli le ore liete della comunità, le piccole feste di fraternità, le commemorazioni importanti, le assemblee, i ritorni dalle missioni, le grandi feste liturgiche dell’anno. Dobbiamo sentirci così uniti che quando uno soffre tutti soffrono con lui, quando uno gioisce tutti gioiscono con lui, e allorché uno parte per le missioni lontane tutti sentono che si è staccato un pezzo di cuore, e quando si torna dalle missioni tutti sentono il bisogno di fare festa.
Diamo un’importanza particolare alla corrispondenza; la lontananza deve aumentare la nostra unità non diminuirla. È soprattutto nei momenti della prova che si affina e irrobustisce lo spirito di famiglia. Nella prova ognuno dimentica i suoi problemi, ognuno tenta di dar forza ai fratelli, ai responsabili e cresce l’unità. Quando si soffre insieme si spengono tanti egoismi.
Quando per qualche ragione c’è stata una freddezza coi fratelli o con i responsabili, affrettiamoci a riparare cominciando dalla preghiera, non permettiamo che il demone della divisione metta in pericolo il nostro amore. Vigiliamo e richiamiamoci su tutto quello che può minacciare il nostro spirito di famiglia: le imprudenze nel parlare, l’ironia, la freddezza nel saluto, le insincerità tra di noi e con i responsabili, le pretese, la suscettibilità.
Adoperiamoci con tutte le forze perché la Comunità non diventi istituzione anonima, ma si conservi vera famiglia in cui ognuno si sente accolto, compreso e amato personalmente.