Da DIRETTORIO
Dir. 2.4.1 § 2) Il contatto con la Parola di Dio è il contenuto e il sostegno fondamentale della preghiera dei consacrati, perché attraverso la Parola rivelata il Signore fa conoscere se stesso, la sua volontà, i suoi interventi di salvezza. È pertanto il mezzo di un incontro personale con Lui, nella adesione e nella riconoscenza; è il luogo di effusione dello Spirito Santo ed è la necessaria preparazione all’Eucaristia e agli altri sacramenti.
Dir. 2.4.3 § 5)
L’invocazione fiduciosa allo Spirito Santo aiuti ad entrare nella preghiera, apra alla comprensione della Parola di Dio, e accompagni nella fatica di ogni giorno perché unicamente la preghiera, unita al sacrificio nel dono sincero di sé, dà valore alla vita umana, aprendola alla salvezza di Dio.
- Da GIOVANNI PAOLO I, Riflessioni all’Angelus
DOMENICA, 24 SETTEMBRE 1978
Ieri sera sono andato a San Giovanni in Laterano. Per merito dei Romani, per la gentilezza del Sindaco e di alcune autorità del Governo italiano, per me è stato un momento lieto. Non lieto, invece, ma doloroso fu l’aver appreso pochi giorni fa dai giornali che uno studente romano è stato ucciso per un motivo futile, freddamente. È uno dei tanti casi di violenza che continuamente travagliano questa povera e inquieta nostra società.
È riemerso anche in questi giorni il caso di Luca Locci, bambino di sette anni, rapito tre mesi fa. La gente talvolta dice: «Siamo in una società tutta guasta, tutta disonesta». Questo non è vero. Ci sono tanti buoni ancora, tanti onesti. Piuttosto, che cosa fare per migliorare la società? Io direi: ciascuno di noi cerchi lui di essere buono e di contagiare gli altri con una bontà tutta intrisa della mansuetudine e dell’amore insegnato da Cristo. La regola d’oro di Cristo è stata: «Non fare agli altri quello che non vuoi fatto a te. Fare agli altri quello che vuoi fatto a te. Impara da me che sono mite e umile di cuore». E lui ha dato sempre. Messo in croce, non solo ha perdonato ai suoi crocefissori, ma li ha scusati. Ha detto: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». Questo è cristianesimo, questi sarebbero sentimenti che messi in pratica aiuterebbero tanto la società.
Quest’anno ricorre il 30° della morte di Georges Bernanos, grande scrittore cattolico. Una delle sue opere più conosciute è «Dialoghi delle Carmelitane». È stata pubblicata un anno dopo la sua morte. Egli l’aveva preparata lavorando sopra un racconto della scrittrice tedesca Gertrud von Le Fort. L’aveva preparata per il teatro. Sul teatro è andata. È stata messa in musica e poi proiettata sugli schermi di tutto il mondo. Conosciutissima. Il fatto però era storico. Pio X, nel 1906, proprio qui a Roma aveva beatificato le sedici CARMELITANE DI COMPIÈGNE martiri durante la rivoluzione francese. Durante il processo si sentì la condanna: «A morte per fanatismo». E una nella sua semplicità ha chiesto: «Signor Giudice, per piacere, cosa vuol dire fanatismo?», e il giudice: «È la vostra sciocca appartenenza alla religione». «Oh, sorelle!, ha detto allora la suora, avete sentito, ci condannano per il nostro attaccamento alla fede. Che felicità morire per Gesù Cristo!». Sono state fatte uscire dalla prigione della Consiergerie, le hanno fatte montare sulla fatale carretta, durante la strada han cantato inni religiosi; arrivate al palco della ghigliottina, una dopo l’altra si sono inginocchiate davanti alla Priora e hanno rinnovato il voto di obbedienza. Poi hanno intonato il «Veni Creator»; il canto, però, si è reso via via sempre più debole, man mano che le teste delle povere suore, ad una ad una, cadevano sotto la ghigliottina. Rimase ultima la Priora, SUOR TERESA DI SANT’AGOSTINO; e le sue ultime parole furono queste: «L’amore sarà sempre vittorioso, l’amore può tutto». Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l’amore può tutto.
Domandiamo al Signore la grazia che una nuova ondata di amore verso il prossimo pervada questo povero mondo.
- Da SR. AGNESE della Piccola Famiglia dell’Annunziata, Lezioni sulla Piccola Regola
LO SPIRITO E LA SCRITTURA
Come il rapporto con l’Eucarestia è opera dello Spirito Santo e non possiamo partecipare all’Eucarestia in modo efficace senza l’ispirazione dello Spirito, così non possiamo avere rapporto con la Parola di Dio senza l’opera dello Spirito. Noi da molto tempo abbiamo questo rapporto con la Scrittura e il rischio che nonostante tutto non sfondiamo abbastanza, c’è.
Don Giuseppe lo diceva a Gerico nel 1981, con molta intensità, ai fratelli. Citava 1Cor 12,8: “«A uno, mediante lo Spirito, è data la parola della sapienza, a un altro la parola della scienza, secondo il medesimo Spirito». Quindi il rapporto con lo Spirito è importante non solo in ordine al nostro rapporto personale con la Parola, ma anche in ordine al comunicarcela gli uni agli altri”.
Noi abbiamo questa facoltà di comunicare la Parola gli uni agli altri sia con l’omelia dialogata, sia in altri modi e qualcuno ha anche il dovere di comunicarla agli altri. Ma anche nella comunicazione della Parola è molto importante che sia lo Spirito a dare la parola di sapienza e la parola di scienza, perché non venga dalla nostra testa. Diceva don Giuseppe al riguardo: “Abbiamo impiegato le nostre energie, le nostra facoltà, tutti i nostri mezzi con il rapporto con la Scrittura, e bisogna farlo, ma tutto questo non conta niente, se non c’è l’invocazione allo Spirito, la supplica e la purificazione del cuore”.
Quest’altro brano che sto per leggervi, lo diceva a noi sorelle nel ’76: “Questo non vuol dire, ne ammonisco soprattutto le sorelle più giovani, che noi non ci dobbiamo anche impegnare con uno sforzo di analisi; no. Tutto questo che è stato fatto in tutti questi anni, l’esperienza che abbiamo accumulato e che tentiamo di parteciparvi adesso, va sempre tenuta presente. Però, un atteggiamento che è difficile da avere in tutte le cose: cioè con grande impegno e generosità e, insieme, con distacco; facendolo – questo sforzo di penetrazione del testo – perché questa è la volontà del Signore, nell’obbedienza concreta, ma sapendo poi che le linee, invece, per il dono del Signore sono altre, tanto più sicure quanto più si è fatto il nostro dovere in questo ambito. Lo si fa per fedeltà, per obbedienza, perché è giusto farlo, ma il Signore ci raggiunge poi per altre strade, in virtù della nostra obbedienza. Non è il nostro scrutare la Scrittura che ce la fa comprendere. La dobbiamo scrutare con amore perché è giusto, ma sono altre le vie che attraverso questo scrutare raggiungono il nostro cuore”.
“Non è che si possa passare l’ora di Scrittura a cavalcare sulle nubi in una specie di estasi, no.
… C’è il corpo della Scrittura, quello va avvicinato, va tutto percorso, tutto conosciuto… Cercherò quindi di capirla, di equilibrare le parole, di contrarre quell’abitudine di attenzione, di confronto, per acquistare quel senso di capacità, ancora umana, di pesare le frasi, di confrontarle, di ricordarle, di metterle a paragone con altre già, più o meno, assimilate. Tutto questo va fatto con grande insistenza e forza, attenzione e amore, pazienza infinita, con un cesello quotidiano; però sapere bene che non è questo che produce, produce se c’è il resto e cioè l’invocazione umile dello Spirito. Quando noi abbiamo effettuato questo percorso incessante del corpo santo della Scrittura, tanto più noi acquistiamo la convinzione che edifica la nostra umiltà, che tutto questo non serve se il Signore non dà il suo soffio. Se noi invece volessimo muoverci soltanto in base a questa convinzione senza fare sforzo, sarebbe in fondo superficiale la nostra stessa persuasione, non nascerebbe da un confronto effettivo e potremmo ancora illuderci, malgrado tutto, che ci siano delle altre strade, se non altro questa: di non faticare”.
Cioè si potrebbe dire: visto che ci pensa lo Spirito non stiamo a fare una gran fatica. No, la fatica va fatta! Nella misura delle nostre forse la fatica va fatta, perché è anche un modo di offrire il sacrificio del nostro intelletto, ma senza lo Spirito non serve. “Invece ci vuole grande pazienza e insistenza, questa è la nostra strada, altri faccia quello che crede. Se il Signore proprio gli dà dei carismi straordinari, apra il libro e parli. Io direi: sparli. Questa non è la nostra strada, decisamente non è la nostra strada; la nostra strada è quella della pazienza, della fatica, dell’insistenza, del confronto, della grande attenzione. Dell’acquisto progressivo di facoltà sempre più esercitate nel percepire le piccole sfumature, anche le più piccole particolarità del testo; però, proprio perché questa va esplorata fino in fondo, verificare poi su questo la contestazione della nostra incapacità”. Fare tutto per capire che non siamo capaci di fare niente; facendo poco si potrebbe credere che facendo di più si riuscirebbe da sé, ma se si fa molto, si percepisce che la Scrittura sfugge. … È l’esperienza: più si lavora più fugge, ed è la cosa più bella, perché la Scrittura non la possiedi. La lavori, la servi, ma senti che va oltre e lì c’è solo la supplica. “Allora mescolare tutto con la miscela incessante che è l’invocazione dello Spirito che deve permeare sempre più tutto il lavoro”. …
Di don Giuseppe, scritto dell’81 a Gerico: “Leggere la Scrittura nello Spirito Santo significa cercare di ottenerlo e per cercare di ottenerlo, mettersi nelle disposizioni dovute di purificazione, di lotta, di combattimento, di ascetismo, di mortificazione molto esigente. Noi delle volte, diciamo la verità, non andiamo al di là di un’interpretazione spirituale un po’ ripetitiva, un po’ facile. Ma quell’interpretazione nello Spirito Santo l’abbiamo colta forse poche volte e forse quelle poche volte sono nate da qualche cosa che ci ha profondamente segnato. Basta dire una cosa, che delle volte, per essere davvero questa la forma del nostro rapporto obbligato con la Scrittura, bisogna anche soffrire molto. È per esempio nella sofferenza che si raggiungono quei gradi profondi di intelligenza della Parola di Dio, che invece non si raggiungono quando un uomo non esperimenta personalmente la croce. Certo è che la Parola di Dio cambia completamente, non solo rispetto alla spiegazione erudita e scientifica, certo, ma anche rispetto alle stesse spiegazioni, diciamo genericamente spirituali, del tipo di quelle che abitualmente noi facciamo, quando è fatta col dono dello Spirito. Quelle poche volte in cui ci siamo riusciti o che è capitato a qualcuno di noi di dire la Parola, si è sentito subito da tutti, per un comune consenso, che la Parola era molto vera e che quello parlava in quel momento per una personale esperienza che aveva raggiunto a prezzo di qualcosa: questa è l’interpretazione nello Spirito Santo. Allora è vero che in noi, in questo caso, si ha la piena coincidenza di chi ha scritto il libro e di chi lo legge, perché è stato scritto dallo Spirito Santo, è stato letto dallo Spirito Santo”.
- Per lo svolgimento dell’assemblea generale
Si può iniziare l’assemblea con la lettura di Lc 19,1-10, brano citato nel testo di padre Cantalamessa.
- Da PADRE RANIERO CANTALAMESSA, Prima predica di Quaresima 11 marzo 2022, III parte
LA LITURGIA DELLA PAROLA
Nei primissimi giorni della Chiesa, la liturgia della Parola era distaccata dalla liturgia eucaristica. I discepoli, riferiscono gli Atti degli Apostoli, “ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio”; lì ascoltavano la lettura della Bibbia, recitavano i salmi e le preghiere insieme con gli altri ebrei; facevano quello che si fa nella liturgia della Parola; quindi si riunivano a parte, nelle loro case, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia (cfr At 2,46).
Ben presto però questa prassi divenne impossibile sia per l’ostilità nei loro confronti da parte delle autorità ebraiche, sia perché ormai le Scritture avevano acquistato per essi un senso nuovo, tutto orientato a Cristo. Fu così che anche l’ascolto della Scrittura si trasferì dal tempio e dalla sinagoga ai luoghi di culto cristiani, prendendo a poco a poco la fisionomia dell’attuale liturgia della Parola che precede la preghiera eucaristica. Nella descrizione della celebrazione eucaristica fatta da SAN GIUSTINO nel II secolo, non solo la liturgia della Parola è parte integrante di essa, ma alle letture dell’Antico Testamento si sono affiancate ormai quelle che il santo chiama “le memorie degli apostoli” (I Apologia, 67,3-4), cioè i Vangeli e le Lettere, in pratica il Nuovo Testamento.
Ascoltate nella liturgia, le letture bibliche acquistano un senso nuovo e più forte di quando sono lette in altri contesti. Non hanno tanto lo scopo di conoscere meglio la Bibbia, come quando la si legge a casa o in una scuola biblica, quanto quello di riconoscere colui che si fa presente nello spezzare il pane, di illuminare ogni volta un aspetto particolare del mistero che si sta per ricevere. Questo appare, in modo quasi programmatico, nell’episodio dei due discepoli di Emmaus. Fu ascoltando la spiegazione delle Scritture che il cuore dei discepoli cominciò a sciogliersi, sicché furono poi capaci di riconoscerlo “allo spezzare del pane” (Lc 24,1ss). Quella di Gesù risorto fu la prima “liturgia della parola” nella storia della Chiesa!
Seconda caratteristica: nella Messa le parole e gli episodi della Bibbia non sono soltanto narrati, ma rivissuti; la memoria diventa realtà e presenza. Ciò che avvenne “in quel tempo”, avviene “in questo tempo”, “oggi” (hodie), come ama esprimersi la liturgia. Noi non siamo soltanto uditori della parola, ma interlocutori e attori in essa. È a noi, lì presenti, che è rivolta la parola; siamo chiamati a prendere noi il posto dei personaggi evocati.
Alcuni esempi aiuteranno a capire. Una volta si legge, nella prima lettura, l’episodio di Dio che parla a Mosè dal roveto ardente: noi siamo, nella Messa, davanti al vero roveto ardente… Un’altra volta si parla di Isaia che riceve sulle labbra il carbone ardente che lo purifica per la missione: noi stiamo per ricevere sulle labbra il vero carbone ardente, il fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra… Ezechiele è invitato a mangiare il rotolo degli oracoli profetici: noi ci apprestiamo a mangiare colui che è la parola stessa fatta carne e fatta pane.
La cosa diventa ancora più chiara se dall’Antico Testamento passiamo al Nuovo, dalla prima lettura al brano evangelico. La donna che soffriva di emorragia è sicura di essere guarita se riuscirà a toccare il lembo del mantello di Gesù: che dire di noi che stiamo per toccare ben più che il lembo del suo mantello? Una volta ascoltavo nel Vangelo l’episodio di Zaccheo e fui colpito dalla sua “attualità”. Ero io Zaccheo; erano rivolte a me le parole: “Oggi devo venire a casa tua”; era di me che si poteva dire: “È andato ad alloggiare da un peccatore!” ed era a me, dopo averlo ricevuto nella comunione, che Gesù diceva: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (cfr Lc 19,9).
Così di ogni singolo episodio evangelico. Come non identificarsi nella Messa con il paralitico al quale Gesù dice: “I tuoi peccati ti sono rimessi” e “Alzati e cammina” (cfr Mc 2,5.11); con Simeone che stringe tra le braccia il Bambino Gesù (cfr Lc 2,27-28); con Tommaso che tocca le sue piaghe (Gv 20,27-28)? Nella seconda domenica del Tempo Ordinario del corrente ciclo liturgico c’è il brano evangelico in cui Gesù dice all’uomo dalla mano paralizzata: “Tendi la mano! Egli la tese e la sua mano fu guarita” (Mc 3,5). Noi non abbiamo la mano paralizzata; però abbiamo tutti, chi più chi meno, l’anima paralizzata, il cuore inaridito. È a chi ascolta che Gesù dice in quel momento: “Stendi la tua mano! Stendi il tuo cuore davanti a me, con la fede e la prontezza di quell’uomo”.
La Scrittura proclamata durante la liturgia produce degli effetti che sono al di sopra di ogni spiegazione umana, alla maniera dei sacramenti che producono quello che significano. I testi divinamente ispirati hanno anche un potere di guarigione. Dopo la lettura del brano evangelico nella Messa, la liturgia invitava un tempo il ministro a baciare il libro dicendo: “Le parole del Vangelo cancellino i nostri peccati”.
Nel corso della storia della Chiesa eventi epocali sono accaduti come risultato dell’ascolto delle letture bibliche durante la Messa. Un giovane udì un giorno il brano evangelico dove Gesù dice a un giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo. Quindi vieni e seguimi” (cfr Mt 19,21). Capì che quella parola era rivolta a lui personalmente, perciò andò a casa, vendette tutto quello che aveva e si ritirò nel deserto. Il suo nome era Antonio, l’iniziatore del monachesimo. Molti secoli dopo, un altro giovane, da poco convertito, entrò in una chiesa con un suo compagno. Nel Vangelo del giorno Gesù diceva ai suoi discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche” (Lc 9,3). Il giovane si voltò verso il suo compagno e disse: “Hai sentito? Questo è ciò che il Signore vuole che facciamo anche noi”. Cominciò così l’Ordine francescano.
La liturgia della Parola è la migliore risorsa che abbiamo per fare ogni volta, della Messa, una celebrazione nuova e attraente, evitando così il grande pericolo di una ripetizione monotona che specialmente i giovani trovano noiosa. Perché questo si realizzi, dobbiamo investire più tempo e preghiera nella preparazione dell’omelia. I fedeli dovrebbero poter capire che la parola di Dio tocca le situazioni reali della vita ed è l’unica ad avere risposte alle domande più serie dell’esistenza.
Ci sono due modi di preparare una omelia. Uno può sedersi a tavolino e scegliere il tema in base alle proprie esperienze e conoscenze; quindi, una volta preparato il testo, mettersi in ginocchio e chiedere a Dio di infondere lo Spirito nelle proprie parole. È una cosa buona, ma non è un modo profetico. Per essere profetici bisognerebbe seguire la via inversa: prima mettersi in ginocchio e chiedere a Dio qual è la parola che vuole far risuonare per il suo popolo.
Dio infatti ha una sua parola per ogni occasione e non manca di rivelarla al suo ministro che gliela chiede umilmente e con insistenza. All’inizio non si tratterà che di un piccolo moto del cuore, una lucina che si accende nella mente, una parola della Scrittura che attira l’attenzione e che getta luce su una situazione vissuta. Non si tratta, all’apparenza, che di un piccolo seme, ma contiene quello che la gente ha bisogno di ascoltare in quel momento.
Dopo ciò uno può sedersi a tavolino, aprire i propri libri, consultare appunti, raccogliere e ordinare i propri pensieri, consultare i Padri della Chiesa, i maestri, a volte i poeti; ma ora non è più la parola di Dio che è al servizio della tua cultura, ma la tua cultura a servizio della parola di Dio. Solo così la Parola manifesta il suo intrinseco potere.
L’opera dello Spirito Santo
Ma bisogna aggiungere una cosa: tutta l’attenzione data alla parola di Dio da sola non basta. Su di essa deve scendere “la forza dall’alto”. Nell’Eucaristia, l’azione dello Spirito Santo non è limitata soltanto al momento della consacrazione, all’epiclesi che si recita prima di essa. La sua presenza è ugualmente indispensabile per la liturgia della parola e, vedremo a suo tempo, anche per la comunione.
Lo Spirito Santo continua, nella Chiesa, l’azione del Risorto che, dopo la Pasqua, “apriva la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture” (cfr Lc 24,45). La Scrittura, dice la Dei Verbum (n. 12) del CONCILIO VATICANO II, “deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta”. Nella liturgia della parola l’azione dello Spirito Santo si esercita mediante l’unzione spirituale presente in chi parla e in chi ascolta.
“Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).
Gesù ha indicato così da dove trae la sua forza la parola annunciata. Sarebbe un errore fare affidamento solo sull’unzione sacramentale che abbiamo ricevuto una volta per tutte nell’ordinazione sacerdotale o episcopale. Questa ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare e amministrare i sacramenti. Ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente qualcosa di quella autorità che le folle avvertivano quando parlava Gesù; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!
Ma se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Dobbiamo anzitutto partire da una certezza: “Noi abbiamo ricevuto l’unzione dal Santo”, ci assicura san Giovanni (1Gv 2,20). Cioè, grazie al battesimo e alla cresima – e, per alcuni, l’ordinazione presbiterale o episcopale – noi possediamo già l’unzione. Anzi, secondo la dottrina cattolica, essa ha impresso nella nostra anima un carattere indelebile, come un marchio o un sigillo: “È Dio stesso –scrive l’Apostolo – che ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2Cor 1,21-22).
Questa unzione però è come un unguento profumato racchiuso in un vaso: rimane inerte e non sprigiona alcun profumo se non si rompe e non si apre il vaso. Così avvenne del vasetto di alabastro rotto dalla donna del vangelo, il cui profumo riempì tutta la casa (Mc 14,3). Ecco dove si inserisce la parte nostra circa l’unzione. Essa non dipende da noi, ma dipende da noi rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’irradiazione. Non è difficile capire cosa significa per noi rompere il vaso di alabastro. Il vaso è la nostra umanità, il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa mettersi in stato di resa a Dio e di resistenza al mondo.
Non tutto, per nostra fortuna, è affidato allo sforzo ascetico. Molto può, in questo caso, la fede, la preghiera, l’umile implorazione. Chiedere dunque l’unzione prima di accingerci a una predicazione o un’azione importante a servizio del Regno. Mentre ci prepariamo alla lettura del vangelo e all’omelia, la liturgia ci fa chiedere al Signore di purificare il nostro cuore e le nostra labbra per poter annunciare degnamente il vangelo. Perché non dire qualche volta (o almeno pensare dentro di sé): “Ungi il mio cuore e la mia mente, Dio onnipotente, perché possa proclamare con la dolcezza e la potenza dello Spirito la tua parola”?
L’unzione non è necessaria solo ai predicatori per proclamare efficacemente la parola, lo è anche agli ascoltatori per accoglierla. L’evangelista Giovanni scriveva alla sua comunità: “Voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza… L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca” (1Gv 2,20.27). Non che sia inutile ogni ammaestramento esterno, ma esso, da solo, serve a ben poco. “È il maestro interiore – commenta SANT’AGOSTINO (Commento alla Prima lettera di Giovanni, 3,13) – colui che veramente istruisce; è Cristo con la sua ispirazione che insegna. Quando manca la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile strepito”.
Speriamo che anche oggi Cristo ci abbia istruito con la sua ispirazione interiore e il mio parlare non sia stato “un inutile strepito”.
- Preghiera di PAPA FRANCESCO, a conclusione della Lettera enciclica Lumen fidei (2013, n. 60)
A Maria, madre della Chiesa e madre della nostra fede, ci rivolgiamo in preghiera: Aiuta, o Madre, la nostra fede!
Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata.
Sveglia in noi il desiderio di seguire i suoi passi, uscendo dalla nostra terra e accogliendo la sua promessa.
Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede.
Aiutaci ad affidarci pienamente a Lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare.
Semina nella nostra fede la gioia del Risorto. Ricordaci che chi crede non è mai solo.
Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino. E che questa luce della fede cresca sempre in noi, finché arrivi quel giorno senza tramonto, che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore!