5° incontro

Da DIRETTORIO

Dir. 2.4.1 § 2) Il contatto con la Parola di Dio è il contenuto e il sostegno fondamentale della preghiera dei consacrati, perché attraverso la Parola rivelata il Signore fa conoscere se stesso, la sua volontà, i suoi interventi di salvezza. È pertanto il mezzo di un incontro personale con Lui, nella adesione e nella  riconoscenza;  è  il  luogo  di  effusione  dello  Spirito  Santo  ed  è  la  necessaria  preparazione all’Eucaristia e agli altri sacramenti.

Dir. 2.4.3 § 5)

L’invocazione fiduciosa allo Spirito Santo aiuti ad entrare nella preghiera, apra alla comprensione della Parola di Dio, e accompagni nella fatica di ogni giorno perché unicamente la preghiera, unita al sacrificio nel dono sincero di sé, dà valore alla vita umana, aprendola alla salvezza di Dio.

 

- Da GIOVANNI PAOLO I, Riflessioni all’Angelus

DOMENICA, 24 SETTEMBRE 1978

Ieri sera sono andato a San Giovanni in Laterano. Per merito dei Romani, per la gentilezza del Sindaco e di alcune autorità del Governo italiano, per me è stato un momento lieto. Non lieto, invece, ma doloroso fu l’aver appreso pochi giorni fa dai giornali che uno studente romano è stato ucciso per un motivo futile, freddamente. È uno dei tanti casi di violenza che continuamente travagliano questa povera e inquieta nostra società.

È riemerso anche in questi giorni il caso di Luca Locci, bambino di sette anni, rapito tre mesi fa. La gente talvolta dice: «Siamo in una società tutta guasta, tutta disonesta». Questo non è vero. Ci sono tanti buoni ancora, tanti onesti. Piuttosto, che cosa fare per migliorare la società? Io direi: ciascuno di noi cerchi lui di essere buono e di contagiare gli altri con una bontà tutta intrisa della mansuetudine e dell’amore insegnato da Cristo. La regola d’oro di Cristo è stata: «Non fare agli  altri quello  che  non vuoi  fatto  a  te.  Fare  agli  altri  quello  che  vuoi  fatto  a  te.  Impara da  me  che  sono  mite  e umile  di  cuore».  E  lui  ha  dato  sempre.  Messo in  croce,  non  solo ha perdonato ai suoi crocefissori, ma  li  ha  scusati.  Ha  detto:  «Padre  perdona  loro  perché  non  sanno  quello  che fanno».  Questo  è cristianesimo, questi sarebbero sentimenti che messi in pratica aiuterebbero tanto la società.

Quest’anno ricorre il 30° della morte di Georges Bernanos, grande scrittore cattolico. Una delle sue opere  più  conosciute  è  «Dialoghi  delle  Carmelitane».  È  stata  pubblicata  un  anno  dopo  la  sua morte.  Egli  l’aveva preparata  lavorando  sopra  un  racconto  della  scrittrice  tedesca  Gertrud  von Le Fort. L’aveva preparata per il teatro. Sul teatro è andata. È stata messa in musica e poi proiettata sugli schermi di tutto il mondo. Conosciutissima. Il fatto però era storico. Pio X, nel 1906, proprio qui  a Roma  aveva  beatificato  le  sedici  CARMELITANE  DI  COMPIÈGNE  martiri  durante  la  rivoluzione francese.  Durante  il  processo  si  sentì  la  condanna:  «A  morte  per  fanatismo».  E  una  nella  sua semplicità  ha  chiesto:  «Signor  Giudice,  per  piacere,  cosa  vuol  dire  fanatismo?»,  e  il  giudice: «È la vostra sciocca appartenenza alla religione». «Oh,  sorelle!, ha detto allora la suora, avete sentito, ci condannano per il nostro attaccamento alla fede. Che felicità morire per Gesù Cristo!». Sono state fatte uscire dalla prigione della Consiergerie, le hanno fatte montare sulla fatale carretta, durante la  strada han  cantato  inni  religiosi;  arrivate  al  palco  della  ghigliottina,  una  dopo  l’altra  si  sono inginocchiate davanti alla Priora e hanno rinnovato il voto di obbedienza. Poi hanno intonato il «Veni Creator»;  il  canto,  però,  si  è  reso  via  via  sempre  più  debole,  man  mano  che  le  teste  delle povere suore,  ad  una  ad  una,  cadevano  sotto  la  ghigliottina.  Rimase  ultima  la  Priora,  SUOR TERESA  DI SANT’AGOSTINO;  e  le  sue  ultime  parole  furono  queste:  «L’amore  sarà  sempre vittorioso,  l’amore  può tutto». Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l’amore può tutto.

Domandiamo  al  Signore  la  grazia  che  una  nuova  ondata  di  amore  verso  il  prossimo  pervada questo povero mondo.

- Da SR. AGNESE della Piccola Famiglia dell’Annunziata, Lezioni sulla Piccola Regola

LO SPIRITO E LA SCRITTURA

Come  il  rapporto  con  l’Eucarestia  è  opera  dello  Spirito  Santo  e  non  possiamo  partecipare all’Eucarestia  in  modo  efficace  senza  l’ispirazione  dello  Spirito,  così  non  possiamo  avere rapporto con la Parola di Dio senza l’opera dello Spirito. Noi da molto tempo abbiamo questo rapporto con la Scrittura e il rischio che nonostante tutto non sfondiamo abbastanza, c’è.

Don Giuseppe lo diceva a Gerico nel 1981, con molta intensità, ai fratelli. Citava 1Cor 12,8: “«A uno, mediante  lo  Spirito,  è  data  la  parola  della sapienza,  a  un  altro  la parola  della scienza, secondo il  medesimo  Spirito».  Quindi  il  rapporto  con  lo  Spirito  è  importante  non  solo  in  ordine al  nostro rapporto personale con la Parola, ma anche in ordine al comunicarcela gli uni agli altri”.

Noi abbiamo questa facoltà di comunicare la Parola gli uni agli altri sia con l’omelia dialogata, sia  in  altri   modi   e   qualcuno   ha   anche   il   dovere   di   comunicarla   agli   altri.   Ma   anche   nella comunicazione della Parola è molto importante che sia lo Spirito a dare la parola di  sapienza e la parola di scienza, perché non venga dalla nostra testa. Diceva don Giuseppe al riguardo: “Abbiamo impiegato le nostre energie, le nostra facoltà, tutti i nostri mezzi con il rapporto con la Scrittura, e bisogna farlo, ma tutto questo non conta niente, se non c’è l’invocazione allo Spirito, la supplica e la purificazione del cuore”.

Quest’altro brano che sto per leggervi, lo diceva a noi sorelle nel ’76: “Questo non vuol dire, ne ammonisco soprattutto le sorelle più giovani,  che noi  non  ci dobbiamo  anche impegnare con  uno sforzo  di  analisi;  no.  Tutto  questo  che  è  stato  fatto  in  tutti  questi  anni,  l’esperienza  che abbiamo accumulato   e   che   tentiamo   di   parteciparvi   adesso,   va   sempre   tenuta   presente.  Però,   un atteggiamento  che  è  difficile  da  avere  in  tutte  le  cose:  cioè  con  grande  impegno  e generosità  e, insieme,  con  distacco;  facendolo  –  questo  sforzo  di  penetrazione  del  testo  – perché  questa  è  la volontà del Signore,  nell’obbedienza concreta,  ma  sapendo poi  che le linee, invece,  per  il dono del Signore sono altre, tanto più sicure quanto più si è fatto il nostro dovere in questo ambito. Lo si fa per fedel, per obbedienza, perché è giusto farlo, ma il Signore ci raggiunge poi per altre strade, in virtù  della  nostra  obbedienza.  Non  è  il  nostro  scrutare  la  Scrittura  che ce  la  fa  comprendere.  La dobbiamo scrutare con amore perché è giusto, ma sono altre le vie che attraverso questo scrutare raggiungono il nostro cuore”.

“Non è che si possa passare l’ora di Scrittura a cavalcare sulle nubi in una specie di estasi, no.

… C’è il corpo della Scrittura, quello va avvicinato, va tutto percorso, tutto conosciuto… Cercherò quindi di  capirla,  di  equilibrare  le  parole,  di  contrarre  quell’abitudine  di  attenzione,  di  confronto, per acquistare quel senso di capacità, ancora umana, di pesare le frasi, di confrontarle, di ricordarle, di metterle  a  paragone  con  altre  già,  più  o  meno,  assimilate.  Tutto  questo  va  fatto  con  grande insistenza e forza, attenzione e amore, pazienza infinita, con un cesello quotidiano; però sapere bene che  non  è  questo  che  produce,  produce  se  c’è  il  resto  e  cioè  l’invocazione umile dello Spirito. Quando  noi  abbiamo  effettuato  questo  percorso  incessante  del  corpo  santo  della Scrittura,  tanto più  noi  acquistiamo  la  convinzione  che  edifica  la  nostra  umiltà,  che  tutto questo non  serve  se  il Signore non dà il suo soffio. Se noi invece volessimo muoverci soltanto in base a questa convinzione senza fare sforzo, sarebbe in fondo superficiale la nostra stessa persuasione, non nascerebbe da un confronto effettivo e potremmo ancora illuderci,  malgrado tutto,  che ci siano delle altre strade,  se non altro questa: di non faticare”.

Cioè  si  potrebbe  dire:  visto  che  ci  pensa  lo  Spirito  non  stiamo  a  fare  una  gran  fatica.  No,  la fatica va fatta! Nella misura delle nostre forse la fatica va fatta, perché è anche un modo di offrire il sacrificio del nostro intelletto, ma senza lo Spirito non serve. “Invece ci vuole grande pazienza e insistenza,  questa  è la nostra strada,  altri  faccia  quello che crede.  Se il  Signore proprio gli  dà dei carismi straordinari, apra il libro e parli. Io direi: sparli. Questa non è la nostra strada, decisamente non è  la  nostra  strada;  la  nostra  strada  è  quella  della  pazienza,  della  fatica,  dell’insistenza,  del confronto,  della  grande  attenzione.  Dell’acquisto  progressivo  di  facoltà  sempre  più  esercitate  nel percepire  le  piccole  sfumature,  anche  le  più  piccole  particolarità  del  testo;  però,  proprio perché questa va esplorata fino in fondo, verificare poi su questo la contestazione della nostra incapacità”. Fare tutto  per  capire  che  non  siamo  capaci  di  fare  niente;  facendo  poco  si  potrebbe  credere  che facendo  di  più  si  riuscirebbe  da  sé,  ma  se  si  fa  molto,  si  percepisce  che  la  Scrittura  sfugge. …  È l’esperienza: più si lavora più fugge, ed è la cosa più bella, perché la Scrittura non la possiedi. La lavori, la servi, ma senti che va oltre e lì c’è solo la supplica. “Allora mescolare tutto con la miscela incessante che è l’invocazione dello Spirito che deve permeare sempre più tutto il lavoro”. …

Di  don  Giuseppe,  scritto  dell’81  a  Gerico:  “Leggere  la  Scrittura  nello  Spirito  Santo  significa cercare di ottenerlo e per cercare di ottenerlo, mettersi nelle disposizioni dovute di purificazione, di lotta, di combattimento, di ascetismo, di mortificazione molto esigente. Noi delle volte, diciamo la verità,  non  andiamo  al  di  là  di  un’interpretazione  spirituale  un  po’  ripetitiva,  un  po’  facile.  Ma quell’interpretazione nello Spirito Santo l’abbiamo colta forse poche volte e forse quelle poche volte sono nate da qualche cosa che ci ha profondamente segnato. Basta dire una cosa, che delle volte, per essere  davvero  questa  la  forma  del  nostro  rapporto  obbligato  con  la  Scrittura,  bisogna  anche soffrire molto. È per esempio nella sofferenza che si raggiungono quei gradi profondi di intelligenza della Parola di Dio, che invece non si raggiungono quando un uomo non esperimenta personalmente la croce.  Certo  è  che  la  Parola  di  Dio  cambia  completamente,  non  solo  rispetto  alla  spiegazione erudita  e  scientifica,  certo,  ma  anche  rispetto  alle  stesse  spiegazioni,  diciamo  genericamente spirituali,  del  tipo  di  quelle  che  abitualmente  noi  facciamo,  quando  è  fatta  col  dono  dello Spirito. Quelle poche volte in cui ci siamo riusciti o che è capitato a qualcuno di noi di dire la Parola, si è sentito subito da tutti, per un comune consenso, che la Parola era molto vera e che quello parlava in quel momento per una personale esperienza che aveva raggiunto a prezzo di qualcosa: questa è  l’interpretazione  nello  Spirito  Santo.  Allora  è  vero  che  in  noi,  in  questo  caso,  si  ha  la  piena coincidenza di  chi  ha  scritto il  libro e  di  chi  lo legge,  perché è stato  scritto dallo Spirito Santo,  è stato letto dallo Spirito Santo”.

 

  1. Per lo svolgimento dell’assemblea generale


Si può iniziare l’assemblea con la lettura di Lc 19,1-10, brano citato nel testo di padre Cantalamessa.

  • Da PADRE RANIERO CANTALAMESSA, Prima predica di Quaresima 11 marzo 2022, III parte

LA LITURGIA DELLA PAROLA

Nei  primissimi  giorni  della  Chiesa,  la   liturgia  della  Parola  era  distaccata  dalla  liturgia eucaristica. I discepoli, riferiscono gli Atti degli Apostoli, “ogni  giorno,  tutti  insieme,  frequentavano il tempio”; lì ascoltavano la lettura della Bibbia, recitavano i salmi e le preghiere insieme con gli altri ebrei; facevano quello che si fa nella liturgia della Parola; quindi si riunivano a parte, nelle loro case, per “spezzare  il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia (cfr At  2,46).

Ben presto però questa prassi divenne impossibile sia per l’ostilità nei loro confronti da parte delle autorità ebraiche, sia perché ormai le Scritture avevano acquistato per essi un senso nuovo, tutto  orientato  a  Cristo.  Fu  così  che  anche  l’ascolto  della  Scrittura  si  trasferì  dal  tempio  e  dalla sinagoga ai luoghi di culto cristiani, prendendo a poco a poco la fisionomia dell’attuale liturgia della Parola che precede la preghiera eucaristica. Nella descrizione della celebrazione eucaristica fatta da SAN GIUSTINO nel II secolo, non solo la liturgia della Parola è parte integrante di essa, ma alle letture dell’Antico Testamento si sono affiancate ormai quelle che il santo chiama “le memorie degli apostoli” (I Apologia, 67,3-4), cioè i Vangeli e le Lettere, in pratica il Nuovo Testamento.

Ascoltate  nella  liturgia,  le  letture  bibliche  acquistano  un  senso  nuovo  e  più  forte  di  quando sono lette in altri contesti. Non hanno tanto lo scopo di conoscere meglio la Bibbia, come quando la si legge a casa o in una scuola biblica, quanto quello di riconoscere colui che si fa presente nello spezzare il pane, di illuminare ogni volta un aspetto particolare del mistero che si sta per ricevere. Questo  appare,  in  modo  quasi  programmatico,  nell’episodio  dei  due  discepoli  di  Emmaus.  Fu ascoltando  la  spiegazione  delle  Scritture  che  il  cuore  dei  discepoli  cominciò  a  sciogliersi,  sicché furono  poi  capaci  di  riconoscerlo “allo  spezzare  del  pane” (Lc  24,1ss).  Quella di  Gesù  risorto fu la prima “liturgia della parola” nella storia della Chiesa!

Seconda caratteristica: nella Messa le parole e gli episodi della Bibbia non sono soltanto narrati, ma  rivissuti;  la  memoria  diventa  realtà  e  presenza.  Ciò  che  avvenne  “in  quel  tempo”,  avviene  “in questo tempo”, “oggi” (hodie), come ama esprimersi la liturgia. Noi non siamo soltanto uditori della parola, ma interlocutori e attori in essa. È a noi, lì presenti, che è rivolta la parola; siamo chiamati a prendere noi il posto dei personaggi evocati.

Alcuni esempi aiuteranno a capire. Una volta si legge, nella prima lettura, l’episodio di Dio che parla a Mosè dal roveto ardente: noi siamo, nella Messa, davanti al vero roveto ardente… Un’altra volta si parla di Isaia che riceve sulle labbra il carbone ardente che lo purifica per la missione: noi stiamo per ricevere sulle labbra il vero carbone ardente, il fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra… Ezechiele è invitato a mangiare il rotolo degli oracoli profetici: noi ci apprestiamo a mangiare colui che è la parola stessa fatta carne e fatta pane.

La  cosa  diventa  ancora  più  chiara  se  dall’Antico  Testamento  passiamo  al  Nuovo,  dalla  prima lettura al brano evangelico. La donna che soffriva di emorragia è sicura di essere guarita se riuscirà a toccare il lembo del mantello di Gesù: che dire di noi che stiamo per toccare ben più che il lembo del  suo  mantello?  Una  volta  ascoltavo  nel  Vangelo  l’episodio  di  Zaccheo  e  fui  colpito  dalla  sua “attualità”. Ero io Zaccheo; erano rivolte a me le parole: “Oggi devo venire a casa tua”; era di me che si  poteva  dire:  “È  andato  ad  alloggiare  da  un  peccatore!”  ed  era  a  me,  dopo  averlo  ricevuto  nella comunione, che Gesù diceva: “Oggi la salvezza è  entrata in questa casa” (cfr Lc 19,9).

Così di ogni singolo episodio evangelico. Come non identificarsi nella Messa con il paralitico al quale Gesù dice: “I tuoi peccati ti sono rimessi” e “Alzati e cammina” (cfr Mc 2,5.11); con Simeone che stringe tra le braccia il Bambino Gesù (cfr Lc 2,27-28); con Tommaso che tocca le sue piaghe (Gv 20,27-28)?  Nella  seconda  domenica  del  Tempo  Ordinario  del  corrente  ciclo  liturgico  c’è  il  brano evangelico  in  cui  Gesù  dice  all’uomo  dalla  mano  paralizzata:  “Tendi  la  mano!  Egli  la  tese  e  la  sua mano  fu  guarita”  (Mc  3,5).  Noi  non  abbiamo  la  mano  paralizzata;  però  abbiamo  tutti,  chi  più  chi meno, l’anima paralizzata, il cuore inaridito. È a chi ascolta che Gesù dice in quel momento: “Stendi la tua mano! Stendi il tuo cuore davanti a me, con la fede e la prontezza di quell’uomo”.

La  Scrittura  proclamata  durante  la  liturgia  produce  degli  effetti  che  sono  al  di  sopra  di  ogni spiegazione  umana,  alla  maniera  dei  sacramenti  che  producono  quello  che  significano.  I  testi divinamente  ispirati  hanno  anche  un  potere di guarigione.  Dopo  la  lettura  del  brano  evangelico nella Messa, la liturgia invitava un tempo il ministro a baciare il libro dicendo: “Le parole del Vangelo cancellino i nostri peccati”.

Nel corso della storia della Chiesa eventi epocali sono accaduti come risultato dell’ascolto delle letture bibliche  durante  la Messa.  Un  giovane  udì  un  giorno il  brano  evangelico  dove Gesù  dice a un giovane ricco: “Se  vuoi  essere  perfetto,  va’,  vendi  tutto  quello  che  hai  e  dallo  ai  poveri  e  avrai  un tesoro  nel  cielo.  Quindi  vieni  e  seguimi”  (cfr  Mt   19,21).  Capì  che  quella  parola  era  rivolta  a  lui personalmente,  perciò  andò  a  casa,  vendette  tutto  quello  che  aveva  e  si  ritirò  nel  deserto.  Il  suo nome  era  Antonio,  l’iniziatore  del  monachesimo.  Molti  secoli  dopo,  un  altro  giovane,  da  poco convertito, entrò in una  chiesa con  un suo compagno. Nel Vangelo del giorno Gesù diceva  ai suoi discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due  tuniche”  (Lc  9,3).  Il  giovane  si  voltò  verso  il  suo  compagno  e  disse:  “Hai  sentito?  Questo  è  ciò che il Signore vuole che facciamo anche noi”. Cominciò così l’Ordine francescano.

La liturgia della Parola è la migliore risorsa che abbiamo per fare ogni volta, della Messa, una celebrazione  nuova  e  attraente,  evitando  così  il  grande  pericolo  di  una  ripetizione  monotona che specialmente  i  giovani  trovano  noiosa.  Perché  questo  si  realizzi,  dobbiamo  investire  più tempo  e preghiera nella preparazione dell’omelia. I fedeli dovrebbero poter capire che la parola di Dio tocca le situazioni reali della vita ed è l’unica ad avere risposte alle domande più serie dell’esistenza.

Ci  sono  due  modi  di  preparare  una  omelia.  Uno  può  sedersi  a  tavolino  e  scegliere  il  tema  in base alle proprie esperienze e conoscenze; quindi, una volta preparato il testo, mettersi in ginocchio e chiedere a Dio di infondere lo Spirito nelle proprie parole. È una cosa buona, ma non è un modo profetico.  Per  essere  profetici bisognerebbe  seguire  la  via  inversa:  prima  mettersi  in  ginocchio e chiedere a Dio qual è la parola che vuole far risuonare per il suo popolo.

Dio infatti ha una sua parola per ogni occasione e non manca di rivelarla al suo ministro che gliela chiede umilmente e con insistenza. All’inizio non si tratterà che di un piccolo moto del cuore, una lucina che si accende nella mente, una parola della Scrittura che attira l’attenzione e che getta luce  su  una situazione  vissuta.  Non  si  tratta,  all’apparenza,  che  di  un  piccolo  seme,  ma  contiene quello che la gente ha bisogno di ascoltare in quel momento.

Dopo  ciò  uno  può  sedersi  a  tavolino,  aprire  i  propri  libri,  consultare  appunti,  raccogliere  e ordinare  i  propri  pensieri,  consultare  i  Padri  della  Chiesa,  i  maestri,  a volte  i  poeti;  ma  ora non  è più la parola di Dio che è al servizio della tua cultura, ma la tua cultura a servizio della parola di Dio. Solo così la Parola manifesta il suo intrinseco potere.

L’opera dello Spirito Santo

Ma bisogna aggiungere una cosa: tutta l’attenzione data alla parola di Dio da sola non basta. Su  di essa  deve  scendere  “la  forza  dall’alto”.  Nell’Eucaristia,  l’azione  dello  Spirito  Santo  non  è limitata soltanto  al  momento  della  consacrazione,  all’epiclesi  che  si  recita  prima  di  essa.  La  sua presenza  è  ugualmente  indispensabile  per  la  liturgia  della  parola  e,  vedremo  a  suo  tempo, anche per la comunione.

Lo  Spirito  Santo  continua,  nella  Chiesa,  l’azione  del  Risorto  che,  dopo  la  Pasqua,  “apriva  la mente dei discepoli  all’intelligenza delle Scritture” (cfr Lc  24,45). La Scrittura, dice la Dei Verbum  (n. 12)  del CONCILIO  VATICANO II, “deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale  è  stata  scritta”.  Nella  liturgia  della  parola  l’azione  dello  Spirito  Santo  si  esercita  mediante l’unzione spirituale presente in chi parla e in chi ascolta.

Lo Spirito  del  Signore è sopra di me;

per questo mi ha consacrato con l’unzione

e mi ha mandato  a portare  ai poveri il lieto  annuncio” (Lc  4,18).

Gesù ha  indicato così  da dove trae la sua forza  la parola annunciata.  Sarebbe un  errore fare affidamento    solo    sull’unzione    sacramentale    che    abbiamo    ricevuto    una    volta    per  tutte nell’ordinazione  sacerdotale  o  episcopale.  Questa  ci  abilita  a  compiere  certe  azioni  sacre, come governare, predicare e amministrare i sacramenti. Ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente qualcosa di quella autorità che le folle avvertivano quando parlava Gesù; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!

Ma  se  l’unzione  è  data  dalla  presenza  dello  Spirito  ed  è  dono  suo,  che  possiamo  fare  noi  per averla? Dobbiamo anzitutto partire da una certezza: “Noi  abbiamo  ricevuto  l’unzione  dal  Santo”, ci assicura  san  Giovanni   (1Gv   2,20).   Cioè,  grazie   al  battesimo   e  alla  cresima   –   e,   per alcuni, l’ordinazione  presbiterale  o  episcopale  –  noi  possediamo  già  l’unzione.  Anzi,  secondo  la dottrina cattolica, essa ha impresso nella nostra anima un carattere indelebile, come un marchio o un sigillo: “È  Dio  stesso  –scrive l’Apostolo – che  ci  ha conferito  l’unzione,  ci  ha impresso  il  sigillo  e ci  ha dato  la caparra dello Spirito  nei  nostri cuori” (2Cor  1,21-22).

Questa unzione però è come un unguento profumato racchiuso in un vaso: rimane inerte e non sprigiona alcun profumo se non si rompe e non si apre il vaso. Così avvenne del vasetto di alabastro rotto dalla donna del vangelo, il cui profumo riempì tutta la casa (Mc  14,3). Ecco dove si inserisce la parte nostra circa l’unzione. Essa non dipende da noi, ma dipende da noi rimuovere gli ostacoli che ne  impediscono  l’irradiazione.  Non  è  difficile  capire  cosa  significa  per  noi  rompere  il  vaso  di alabastro. Il vaso è la nostra umanità, il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa mettersi in stato di resa a Dio e di resistenza al mondo.

Non tutto, per nostra fortuna, è affidato allo sforzo ascetico. Molto può, in questo caso, la fede, la  preghiera,   l’umile  implorazione.   Chiedere   dunque   l’unzione   prima   di   accingerci   a   una predicazione  o  un’azione  importante  a  servizio  del  Regno.  Mentre  ci  prepariamo  alla  lettura  del vangelo e all’omelia, la liturgia ci fa chiedere al Signore di purificare il nostro cuore e le nostra labbra per  poter  annunciare  degnamente  il  vangelo.  Perché  non  dire  qualche  volta  (o  almeno  pensare dentro di sé): “Ungi il mio cuore e la mia mente, Dio onnipotente, perché possa proclamare con la dolcezza e la potenza dello Spirito la tua parola”?

L’unzione non è necessaria solo ai predicatori per proclamare efficacemente la parola, lo è anche agli ascoltatori per accoglierla. L’evangelista Giovanni scriveva alla sua comunità: “Voi avete ricevuto l’unzione  dal  Santo,  e  tutti  avete  la  conoscenza…  L’unzione  che  avete  ricevuto  da  lui  rimane in voi  e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca” (1Gv 2,20.27). Non che sia inutile ogni ammaestramento esterno,  ma  esso,  da  solo,  serve  a  ben  poco.  “È  il  maestro  interiore  – commenta  SANT’AGOSTINO (Commento  alla  Prima  lettera  di  Giovanni,  3,13)  –  colui che veramente istruisce; è Cristo con la sua ispirazione che insegna. Quando manca la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile strepito”.

Speriamo che anche oggi Cristo ci abbia istruito con la sua ispirazione interiore e il mio parlare non sia stato “un inutile strepito”. 

  • Preghiera di PAPA FRANCESCO, a conclusione della Lettera enciclica Lumen fidei (2013, n. 60)

A Maria, madre della Chiesa e madre della nostra fede, ci rivolgiamo in preghiera: Aiuta, o Madre, la nostra fede!

Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata.

Sveglia in noi il desiderio di seguire i suoi passi, uscendo dalla nostra terra e accogliendo la sua promessa.

Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede.

Aiutaci ad affidarci pienamente a Lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare.

Semina nella nostra fede la gioia del Risorto. Ricordaci che chi crede non è mai solo.

Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino. E che questa luce della fede cresca sempre in noi, finché arrivi quel giorno senza tramonto, che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore!